Persi in “The Island” e poi con le “Fonografie”: gli ultimi album di Godblesscomputers

È possibile concepire un corrispettivo musicale della storica serie televisiva LOST?

La domanda, specie se posta, come in questo caso, da un esperto della suddetta esperienza televisiva, è intrigante e dimostra di certo un effetto positivo dell’ascolto di The Island, album di GODBLESSCOMPUTERS, uscito il 4 dicembre 2020, per La Tempesta International, distribuito worldwide da AWAL, che ha riscosso un discreto successo di critica.

Questa domanda che mi ha suscitato l’ascolto è una domanda bislacca e certamente di difficile risposta. La risposta è: probabilmente si. E probabilmente se ne dovessimo immaginare una versione più minimale, leggera, meno mastodontica e imponente, in una versione elettronica con sonorità black, si può dire che The Island di Godblesscomputers ne rappresenta una interpretazione convincente.

Infatti il produttore ci porta in un mondo che rappresenta, esattamente come l’isola di Lost, uno spazio immaginario dai contorni indefiniti e dalle caratteristiche particolari, in cui niente è come sembra e tutto è suggestione personale, un luogo metafisico e non fisico, un luogo dell’anima  e della mente che costituisce una metafora della propria interiorità rispecchiata nell’esotismo della composizione musicale.

Una sorta di specchio in cui si prospettano, in otto semplici mosse, tutta una serie di possibilità e di giochi di rimandi, di influenze, di intuizioni, di sensazioni miste e di associazioni mentali e uditive.

E in un contesto di isolamento come quello che abbiamo vissuto e che era ancora in piena fase al momento dell’uscita di questo lavoro, The Island è stato un album che ha rappresentato bene la densità di emozioni e atmosfere che la musica può donarci, trasportandoci in posti e addirittura mondi lontani ed esotici, pur restando chiusi tra quattro mura senza altre persone con le quali poter socializzare, ma potendo plasmare collegamenti e connessioni.

Ed è qui, in questa isola enigmatica, che ci porta Godblesscomputers.

L’autore ha già esaurientemente descritto il suo lavoro traccia per traccia:

“Il disco ha una genesi lunga e stratificata. Dopo un primo abbozzo fatto di getto in seguito all’ultimo tour, mi sono chiuso in studio senza rinunciare alle collaborazioni e ai veri e propri featuring. Grazie alla voce di Jennifer dei Technoir, Pacific Sound ci trasporta immediatamente a latitudini diverse, avvicinandosi a quell’isola dei sogni che finalmente si manifesta ai nostri occhi. Glenn Astro e Montoya contribuiscono alle produzioni di due tracce, rispettivamente Rocks e Echoes.

Il vibrafono di Pasquale Mirra in Lions ci dà il benvenuto mentre attraversiamo la fitta jungla tropicale. Gli arpeggi e i bassi di Giulio Abatangelo, già membro della band in tour e musicista in Solchi, sono la bussola per le nostre esplorazioni. La copertina stessa nasconde un enigma, come fosse un miraggio o un’illusione: lo scenario cambia a seconda del punto di vista e lascia il dubbio fino alla fine su cosa sia reale.”

Cosa si può aggiungere allora?

Intanto che la qualità dei suoni scelti e campionati con maestria da Godblesscomputers è sempre di un certo livello.

Analizzando le tracce poi, si vede come l’elettronica hip hop di Godblesscomputers si faccia più jazzata nell’intro The Island, più rockeggiante nella seconda traccia Fire in the jungle, più soul in Pacific Sound, anche per merito della voce di Technoir e a quel misto di carillon e percussioni tribali a rendere il brano esotico.

Leggermente meno riuscita a livello tecnico la maestosità nel dub / lounge jazz di Lions, pezzo forse troppo lascivo rispetto al suo standard, anche se comunque ha il suo effetto straniante a riscattarlo in quanto supera decisamente i tre precedenti in questa eterea psichedelia. Il risultato è quindi interessante in quanto più complesso e variegato.

Non delude neanche quando, precisamente in Rocks, sembra virare sulla dance. Decisamente interessante il pezzo finale, ciliegina sulla torta dell’intero album, Pillow, che rappresenta la fusione perfetta delle due anime del disco, un meccanismo perfetto di interazione tra i suoni di strumenti tribali e le sonorità elettroniche in una sorta di costruzione di un ibrido biomeccanico tra antico e moderno, tra primordiale e futuristico, in uno spazio dell’anima rappresentato da questa isola immaginaria che viene mappata tramite la ridondanza di certi tipi di sound messi quasi a rimbalzare nei nostri padiglioni auricolari.

Un po’ sottotono rispetto al magnifico Solchi del 2017 ma comunque un buon album di un creatore di musica che si conferma brillante nel suo essere originale ma alla portata di tutti.

In seguito il compositore bolognese ha realizzato un altro album con il suo side project KORALLE dal titolo Fonografie, opera di respiro internazionale uscita per la label tedesca Melting Pot Music, anticipata da diversi singoli usciti nei mesi precedenti, che hanno superato presto il milione di ascolti su Spotify.

La copertina a mo’ di mosaico, che ricorda il gioco del Memory, è composta da fotografie fatte dallo stesso autore. Una copertina decisamente appropriata per descrivere quello che è il suono complessivo di questo progetto.

Infatti, in questa raccolta di collaborazioni con diversi artisti della scena hip hop europea e statunitense, l’impressione è proprio quella di un lavoro di ricostruzione della memoria, di associazioni mentali e percettive che riportano in auge il sacro legame tra sonorità jazz e soul con il rap e l’hip hop, in quanto nella cosiddetta Golden Age questi ultimi due generi nascevano proprio sulle basi di campionamenti jazzy come i suddetti brani.

Questo collegamento viene appunto riportato alla memoria, in un momento in cui da un lato la direzione presa dalla musica contemporanea mainstream sembra farcelo dimenticare, dall’altro si assiste a una rinascita di questo connubio indissolubile anche in chiave modernizzata e attuale.

L’unione dei beat con il rap degli ospiti opera proprio questo refresh delle radici della cultura hip hop. La memoria è chiamata in causa anche dal fatto che qui le atmosfere ricercate sono quelle nebulose dei ricordi che affiorano alla mente e all’inconscio, esattamente come fotografie fatte di musica o meglio fonografie, appunto, dei flash (le tracce sono decisamente brevi, intorno ai due-tre minuti ciascuna) che lasciano impressi pezzi di memoria in entrambi i sensi suddetti.

Ma soprattutto il mosaico rende bene l’idea del meltin’ pot, non a caso come il nome della label che lo ha pubblicato, che è proprio rappresentativo, termine anche questo sacro ed evocativo della dottrina hip hop nella sua vera essenza e il suo lato più universalmente godibile.

Nell’insieme tutto assume comunque connotazioni oniriche e sognanti che sono ottime per gli estimatori del genere  ma anche per chi le può anche solo apprezzare come sottofondo, per via delle punte chillout e lounge jazz rilassanti, che conservano la preminenza rispetto alle voci.

Da notare come ci siano comunque delle linee di continuità tra questi due ultimi lavori, almeno a livello concettuale, ad esempio con Snakes, che riprende un po’ i suoni della jungla, e da segnalare soprattutto i brani Lies con la voce soul femminile di Karhys e ovviamente la presenza anche dei cultori italiani in materia ovvero i Funk Shui Project, presenti nel brano Oro.

Più recentemente il producer ha contribuito con la sua musica al video spot per la regione Emilia Romagna con la presenza di Stefano Accorsi.

Tutto ciò conferma il fatto che dobbiamo ricordarci il nome di Godblesscomputers come un nome di punta musicale e orgoglio nazionale tra i produttori di elettronica e non solo, proprio in virtù della sua versatilità compositiva.

Se volete assistere dal vivo a una sua esibizione segnaliamo la data di martedì 20 Luglio live all’ Arena_Milano_Est, l’unica data milanese dell’estate 2021 nel live A/V + opening RGB PRISMA + special guest.

Per info e biglietti rimandiamo all’evento su Facebook.