Scopriamo i Mombao, originale duo tra musica e performance

Si intitola Essaiere l’ultimo singolo dei Mombao, atipico duo milanese composto da Damon Arabsolgar (Pashmak) e Anselmo Luisi (Le Luci della Centrale Elettrica) che propone un progetto a metà tra musica e art performance, da sentire ma anche vedere e vivere con partecipazione.

Un’idea del genere non poteva non incuriosirci e così abbiamo deciso di approfondire con un’intervista per saperne di più sulla loro visione artistica e non solo.

Come nasce il vostro incontro e il progetto Mombao?

Ci siamo conosciuti in Università, eravamo alla Bocconi, io (Damon, nda) mi presentavo sempre con uno skate o un basso elettrico super metal, una molla incastrata in un dread e i capelli lunghi, di conseguenza molte volte avevo un posto libero vicino.
Anselmo arrivava sistematicamente in ritardo, capello biondo lungo e fluente, occhialini alla John Lennon.
Una cosa tira l’altra e alla fine una nostra amica ci ha fatto fare due più due.
Il progetto Mombao nasce molti anni dopo, dopo un lungo periodo a suonare jazz, Anselmo mi chiama e mi propone di suonare insieme, la prima prova eravamo in tre, insieme a Walzer Carluccio, divenuto poi una star nazionale
con la presenza a “Persia’s got talent” cantando “Hey lascia entrare Ascanio”, in un momento di surrealtà divina e irraggiungibile.

La vostra dimensione live è piuttosto originale, quando scrivete lo fate già immaginando la performance dal vivo?
è difficile trasferire in studio l’atmosfera che si può rendere anche fisicamente dal vivo?

Si, per noi il live è fondamentale. Siamo un progetto a cavallo fra il mondo della musica e quello della performance/teatro/happening quindi il focus è sempre stato chiaro.
Non è necessario, ma capita che alcune scelte vengano fatte proiettandosi verso il live, sia da un punto di vista di selezione del materiale, che di processualità della composizione, che di necessità di scaletta o possibilità di utilizzo di dispositivi all’interno del canovaccio improvvisativo.
Mi spiego meglio, il live è strutturato (circa) come un unico pezzo e ha un suo flusso interno. Ovviamente è sempre dinamico, fluido, lo cambiamo spesso, e aggiungiamo brani in base a come vogliamo dirigere la performance.
Questo ci porta a selezionare a monte sia la strumentazione, che la disposizione, che la scelta dei brani, i punti in cui sappiamo che possiamo andare liberi e che tipo di possibilità apre mettere, per esempio, una parte di sole voci e battiti di mani in un punto specifico del live.
Il processo di registrazione è un capitolo a parte, una sfida che stiamo affrontando insieme a Giacomo Carlone, che co-produce i brani, li registra, li mixa e ci permette di dargli un taglio più “discografico”.
I singoli che stanno uscendo sono in questa direzione e quelli che stiamo scrivendo lo saranno ancora di più.

Avete suonato tanto in giro per il mondo, qual è l’esperienza che vi ha influenzato maggiormente?

Probabilmente quella nei Balcani, è stato come ribaltare la testa all’indietro e affondare nella serena malinconia, la Sevdah.
È stato un vero viaggio, pieno di incontri, lune giganti che albeggiavano su montagne blu, notti in sacchi a pelo della guerra, accendendo stufe a legna, dinosauri formato gallina, amici con cui manteniamo ancora adesso i contatti e fossati profondi in cui testare la resistenza del furgone.
C’è stato un prima e un dopo.

Essaiere nasce da un canto popolare nigeriano, qual è stata la difficoltà maggiore nel trasportarlo in sonorità e strumenti moderni?

Siamo partiti dal semplice canto, insegnato da una ragazza mezza tedesca e mezza nigeriana ad Anselmo durante un laboratorio di body percussion.
Siamo saliti sul tetto del Meta Forte, un’associazione culturale della laguna di Venezia, e davanti al loro giardino delle meraviglie, con roulotte invisibili coperte di specchi, pianoforti frammentati sorvolati da corvi neri di gesso e bende, topastri bipedi con limoni in bocca che dondolano su altalene, e abbiamo cantato insieme.
Forse la parte più complessa è stata proprio quella dell’arrangiamento vocale, l’incastro delle voci.

La vostra musica e in particolare questo brano esprimono un gran senso di comunione e condivisione. È un modo anche un po’ per esorcizzare la situazione di distanziamento sociale in cui viviamo? Pensate che questo periodo lascerà strascichi sulla nostra capacità di stare assieme?

Uno dei capitoli più importanti della nostra formazione come progetto artistico è stato proprio quello in cui abbiamo preso consapevolezza delle reali necessità interiori che sentivamo riguardo alla performance dal vivo.
Ad un certo punto abbiamo sentito la necessità di suonare per una sincera ricerca di gratitudine e non solamente ammirazione.
Cito Franca Sacchi, figura femminile milanese che ho scoperto da poco grazie a Clara, un’attivista di Milano che saluto:
“Ho cercato di ripristinare il significato, l’intenzione e la funzione originarie, creando un modo di fare musica (e danza)
che parte da “dentro” (en-statico), a differenza di “estatico” (dal greco, “uscir fuori”) e che vanno sempre più “dentro”.
Dove non c’è l’esaltazione della personalità, né il divismo, ma si tratta di coincidere realmente con Sé, non di aderire a
qualcosa di prefissato, o di imparare coreografie”.
Non lo facciamo per esorcizzare la situazione attuale, i brani erano scritti prima, il progetto c’era già. L’abbiamo sempre fatto, nostra era una risposta precedente alla domanda.
Se ci dovessero essere strascichi il nostro compito è quello di resistere, poi invitare, proporre un’alternativa e poi ballare insieme.

Da inizio anno collaborate con Milano Mediterranea, volete raccontarci di più di come è nata questa partnership e in che cosa consiste?

La “partnership” è nata grazie all’esperienza precedente di residenza a Neutopia. Neutopia “è un progetto che promuove utopie localizzate e temporanee, realizzando formati sperimentali e collaborativi di residenza artistica transdisciplinare”.
Marta Meroni partecipava e dopo la nostra performance ci ha invitati a mandare application per Milano Mediterranea che invece è “un centro d’arte partecipata post-coloniale che parla le lingue del Mediterraneo, coinvolgendo i cittadini attraverso residenze artistiche partecipate, un laboratorio permanente rivolto ai giovani, un comitato di quartiere che affianchi Milano Mediterrranea nella selezione dei progetti di residenza e programmazione culturale”.
Suoneremo per strada, raccoglieremo canti popolari da tutto il mondo grazie alla specificità multiculturale del Giambellino, organizzeremo Jam session aperte con gli Addict Ameba, svilupperemo a BASE Milano un lavoro di visual interattivi insieme a Kokoshka Revival e Stefano Roveda e faremo una masterclass di canti popolari e body percussion.

So che avreste dovuto andare in tour in India e Nepal lo scorso anno, è questo il primo progetto che realizzerete appena le condizioni lo permetteranno o nel frattempo avete messo in programma qualcosa di diverso?

SI, dovevamo suonare in India e Nepal, avevamo vinto il bando SIAE Italia Music Export per finanziare il tour e
la produzione di un documentario on the road che potesse spiegare concretamente il nostro percorso di ricerca.
Per ora non si sa nulla, nel frattempo stiamo approfondendo la relazione fra arte e tecnologia, musica/performance, stiamo sviluppando il discorso discografico e abbiamo scoperto che la cosa che ci diverte di più e che non avremmo mai scoperto altrimenti è suonare per strada, situazione in cui moduliamo la performance in una sorta di spettacolo di strada estemporaneo che ci ha già permesso di suonare in Italia e Slovenia.
E poi nei prossimi mesi usciranno i nuovi singoli!