Gli Autechre che lasciano il “Sign”

Da pochi giorni è uscito il nuovo album degli AUTECHRE, per Warp Records, dal titolo Sign.

E in pochi giorni si è fatto un gran parlare (per quanto si possa fare un gran parlare di un genere così di nicchia) riguardo a quest’album e, tra processi sommari e giudizi spietati da un lato e reverenza e tentativi di concessione della grazia verso dei mostri sacri dall’altro, si sono lette diverse recensioni negative. Forse, la verità sta nel mezzo.

Le recensioni più fredde, riassumendo, imputano a questo nuovo disco degli Autechre un “tradimento” della continuità nella qualità, o addirittura una vera e propria delusione, un appiattimento e, nel migliore dei casi, un insuccesso dovuto alle aspettative troppo alte alla quale i signori Sean Booth Rob Brown ci hanno abituato.

Tutti discorsi perfettamente comprensibili e che in parte ci sentiamo di comprendere e ci sforziamo di condividere ma che forse, in fondo, nascondono qualcosa di diverso: il problema di non sapere cosa dire/scrivere.

Si, perché se anche sono accettabili questi paragoni, non lo è, in termini di oggettività, l’influenza di questi fattori nel giudizio di un prodotto che è, tutto sommato, un buon album di musica elettronica (con tutta le implicazioni date dalla genericità del termine).

Se infatti, a un primo ascolto distratto e superficiale, può sembrare un disco sottotono, a un secondo ascolto ci si ricorda che siamo perfettamente entro i canoni della Warp, e in realtà anche degli Autechre.

Infatti, gli accenni al minimalismo che sembrano pregiudicare l’opera, facendola perdere di mordente, in realtà sono aperture a una varietà compositiva che include vari picchi di sonorità di impatto sulla mente dell’ascoltatore, che emergono forse con maggior risalto in un sottofondo più vaporoso, seppure più mediocre, come delle montagne che svettano in una pianura desertica e asfittica. Vanno apprezzati di più.

Si tratta di momenti in una composizione di 66 minuti, certo, ma sono comunque momenti da godere. Momenti come si00 e sch.mefd2 e soprattutto la rotondità sonora di au14, che spiccano e bilanciano l’aspetto noioso di suoni atmosferici troppo tirati per le lunghe tanto da risultare noiosi come F7 o Metaz form8. Momenti che, messi insieme sono comunque di più rispetto a quelli poco edificanti.

Chiaro che, trattandosi di qualcosa di più ambient e sci-fi, contiene molti meno glitch e ritmi movimentati rispetto al passato, non aspettatevi niente di frenetico.

Ma si tratta quindi sempre di questo, di attenzione, di capacità di ascolto, di pazienza, di gusti, di dischi più adatti per certi momenti e meno per altri: qui lo spazio è quasi completamente dedicato a momenti riflessivi e rilassanti.

Sicuramente non è tra i dischi migliori del genere, non sarebbe tra i consigliati di quest’anno, ma se parliamo del genere ambient, il nome Autechre rimane comunque una delle migliori definizioni e in questo album si sente.

Per non parlare del generico termine “elettronica“, calderone nel quale si può mettere tutto e il contrario di tutto e che a maggior ragione giustifica certe esagerazioni nella dilatazione e nella sperimentazione apparentemente puramente tecnologica come la traccia psin AM e da lì in poi tutto il finale.

Siamo comunque nell’ambito del miglior ambient targato Warp, a maggior ragione se mescolato con qualcosa d’altro, secondo la ricetta della varietà tipica della casa, citofonare Richard David James aka Aphex Twin.

Quindi si può dire che anche se questo lavoro non lascerà il segno, è comunque “nel segno” degli Autechre, band che storicamente ha già lasciato un segno nella storia della musica.