Intervista a Brenneke

Moniker teutonico, titolo curioso: gli elementi a favore di Brenneke erano già due. Il terzo è la musica contenuta in Vademecum del Perfetto Me. Otto brani che ci raccontano il mondo dell’autore, un mondo composto di elettronica e chitarre, un mondo calmo, oscuro e anche malinconico. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Edoardo, mente, voce e braccio del progetto.

Qual’è la prima sensazione che hai avuto una volta finito il disco. Quando hai detto “ok, è finito. Può essere liberato ed ascoltato da altri”?
“Ciao Amanda. Quando ho terminato Vademecum Del Perfetto Me (cioè quando è stato fatto il master definitivo) ho provato un gran senso di liberazione, perché finalmente non potevo più perdermi ad aggiustare dettagli qua e là. Smaniavo all’idea di presentarlo, ma ero molto sollevato all’idea di averlo terminato. Per i destinatari (il pubblico) quello è il momento in cui un disco comincia, ma per chi lo fa, dopo mesi di lavoro e attenzioni, è sicuramente il momento in cui finisce”.

Questo è il tuo esordio: come è nato?
“Il mio esordio è nato in un sacco di tempo. La genesi di questo disco parte da prima che uscisse il mio primissimo EP, nel 2013. All’epoca di quel lavoro ancora non ero molto sicuro delle mie capacità e decisi di metterci un po’ di cautela. Poi, dopo qualche tempo di concerti e nuove canzoni composte, ho pensato che finalmente potevo misurarmi in qualcosa di più elaborato e coeso. Molti pezzi del disco (come Zero, Le Cose Lucenti o Lascio Il Gruppo) sono molto vecchi e alcuni li suonavo già stabilmente dal vivo. Mi sono ritrovato con un ventaglio piuttosto ampio di canzoni dal quale estrarre quelle che avrebbero fatto parte del lavoro.

Sicuramente un passo fondamentale è stato l’incontro con Francesco Tosi, che è diventato per me un fratello spirituale e nel cui studio ho registrato e mixato tutto il disco. Prima di incontrare lui, ad un mio concerto dalle parti di Varese, avevo tutto il disco in testa ma brancolavo nel buio su dove e come farlo. Più o meno un anno fa iniziavamo a registrarlo e abbiamo fatto tutto con estrema calma perché venisse il meglio possibile. Abbiamo registrato e mixato nei ritagli di tempo per mesi, nella mia soffitta, in casa sua, in sale prove, con strumenti miei e prestati da amici, trasportando e microfonando qualunque cosa in qualunque posto ci servisse.

Nel disco poi sono stati coinvolti Mike Pastori alle trombe e Matteo de Marinis alla batteria, mentre il master è stato affidato a Andrea Bernie De Bernardi. L’omino in copertina è un mio vecchio disegno che ho affidato al mio amico Giorgio De Marinis, e a partire da quello ha creato tutte le grafiche. Senza tutte queste persone questo disco non sarebbe mai esistito”.

Dietro Brenneke c’è Edoardo Frasso. Quali altri elementi umani o meccanici ne fanno parte?
“Come dicevo, senza dubbio non esisterei senza tutti gli amici musicisti che suonano con me, che mi aiutano materialmente e mi infondono fiducia. Oltre a tutti coloro che ho citato prima, ci sono soprattutto Simone Fry Ceriotti e Giuseppe Musto, che sono il bassista e il batterista che mi accompagnano dal vivo. Poi un buon elemento di Brenneke è sicuramente un manipolo di attrezzature ingombranti e inaffidabili, che sempre più mi consentono di portare l’estetica piuttosto eterogenea della mia musica sul palco”.

Le tracce hanno tutte una buona dose di elettronica. Tu da chitarrista, come ci sei finito in mezzo?
“Venendo da tutto il territorio della New Wave l’elettronica è sempre stata parte del mio modo di concepire la musica, anche quando ancora non lo sapevo. Ad un certo punto nelle mie divagazioni chitarristiche ho iniziato ad assemblare le mie tracce di drum machine perché volevo vedere come suonavano le mie canzoni con degli elementi ritmici più accentuati. È andata a finire che poi alcune canzoni sono nate dipendendo il tutto e per tutto da questi suoni sintetici, che hanno inevitabilmente colonizzato il mio sound. Mi piace l’idea di crearmi questi corridoi di suoni sui quali posso svisare ma sempre mantenendo il groove e il mood ben piantati per terra. E soprattutto mi piace l’ossessività che si può creare con l’elettronica. Un ostinato looppato all’infinito mi da un grande senso di controllo”.

Per la promozione del disco ti stai muovendo da solo, come nella migliore etica del DIY. Cosa ti richiama questo modo di vedere e agire nella musica? 
“Sì mi sto muovendo quasi da solo, anche se ricevo un sacco di aiuti da tante persone, su tutti il grande Matia Campanoni. Semplicemente, quello che mi da l’etica del DIY è la libertà, la possibilità di muovermi in uno spazio mio e di cui decido io i confini, senza avere nessuno a cui dover spiegare le mie ragioni. È un aspetto molto, molto importante per me”.

Al “Perfetto Me” cosa non può assolutamente mancare?
“Direi un vademecum”.

Parliamo un po’ delle canzoni. Hai scelto dei brani con spigliata attitudine pop. Il mio preferito però è Reichelt, perché credo racchiuda una malinconia profonda.
“Ti ringrazio, tengo molto a quel pezzo, che è essenzialmente una lunga jam psichedelica su due accordi. È una specie di filastrocca che ruota attorno al concetto di “niente”, inteso sia come smarrimento profondo sia come vuoto buddista, quella consapevolezza di impermanenza che trasforma la sofferenza in equilibrio interiore. Però era un concetto troppo generico e mi serviva un elemento disturbatore che lo profanizzasse. Così è arrivato il titolo, ispirato alla storia assurda di Franz Reichelt, un sarto ed inventore che nel 1912 sperimentò un paracadute di sua creazione lanciandosi dalla Torre Eiffel di fronte a un nutrito gruppo di giornalisti. Il collaudo fallì, con conseguenze immaginabili. Ho scoperto questa storia mentre ero a Parigi proprio sotto la torre qualche tempo fa, mi ha colpito molto e volevo dedicare qualcosa a quest’uomo che per certi versi ha incarnato l’assurdità del progresso.

Mi piace aver inserito un po’ di turbamento in un pezzo che cerca di elevarsi a mia riflessione sul Nirvana. Rispetto alla malinconia di cui parli, credo che sia una caratteristica contenuta in molta della mia musica, o almeno è quello che cerco di ottenere. In realtà in questo disco sento che emerge di più soprattutto nei momenti apparentemente più dinamici, come Aforismi, Zero o Le Cose Lucenti“.

Hai un rimpianto? Se potessi scioglierlo ora, cosa faresti?
“A pensarci forse me ne viene in mente uno: non aver iniziato a suonare il pianoforte da bambino. Credo di essere un po’ giovane per i veri rimpianti però. Li aspetto a braccia aperte tra qualche anno, così potrò scrivere nuove canzoni”.

Innamorarsi di questi brani e attendere i prossimi, la musica è un mondo pulsante è mobile, sarà bello incontrare di nuovo Brenneke tra qualche anno.

Amanda