Back Air Falcon Dive: mano nella mano con gli ANNA OX tra post rock ed elettronica

Chissà chi era con me a sentire gli ELK in quel de Laroom, a Vigevano, nel lontano, ma nemmeno così tanto, 7 ottobre 2016. Nella mia auto ha sempre vissuto stabilmente un solo CD, Requiem, primo lavoro della nuova era dei Verdena, ma proprio da quel giorno di due anni e mezzo fa ha visto accompagnare la propria solitudine da Ultrafun Sword, l’ultimo lavoro di quel gruppo nostrano che tanto suonava come un incantesimo rock.

Perché iniziare dagli ELK? Perché tutto è partito da lì, perché gli ANNA OX ad eccezione della batteria che sarà, perlomeno nei live, tutta nelle bacchette di Andrea Ganimede {mentre la versione in studio è stata curata, come il mix, da Pietro Ferrari} rinascono da quegli ELX lì. Permangono Guido Ghilardi al basso, Alessandro Carnevale e Giovanni Graziano alle due chitarre. E il cantante? Non c’è, Ed ecco la prima differenza con gli ELK. Eppure…

Eppure il primo singolo, che avrete già ascoltato, che apre anche Back Air Falcon Dive, l’album che abbiamo la fortuna e l’onore di ascoltare in anteprima, il cantante ce l’ha, eccome. Al secolo Adam Vida, protagonista delle rime parlate del Rap della West Coast, di Frisco, California. Una voce potente, tagliente, ficcante, nell’atmosfera eterea di un post-rock che si schiude in una calma apparente, fino alla dolce intrusione r’n’b e una chiusura, inaspettata, quasi sussurrata, che ricorda tanto nelle nostre teste 22, a Million, il capolavoro del 2016 {che combinazione…} di quel fenomeno di Bon Iver.

Da questo momento, gli ANNA OX ci raccontano un’altra storia. Una storia che parte con un lieve scorrimento d’acqua e decanta atmosfere elettroniche sempre delicate ma persistenti, con la batteria a costruire un unisono di ritmo tribale e crescente, nella seconda traccia, BASE1. Qui abbandoniamo il cantato e ci lasciamo trasportare in un viaggio onirico, quasi psycho trance, ma suonato, in quella commistione tra post rock squisitamente europeo e graffi elettronici da club di Berlino. Così nasce JJUNGLE, il terzo pezzo, che sembra quasi un’attesa di quello che ci aspetterà a venire, con quel ritmo incalzante che aumenta il crescendo sintetico del disco, galleggiamento elettronico ed esplosione, a braccetto con il concetto di entertainment tipicamente Mogwai: okay, per un momento puoi parlare, ma al nostro segnale noi ti rubiamo, nuovamente, tutta la tua attenzione.

Con GUILE le carezze si mantengono sulla rarità, con una schema simile alle canzoni precedenti, ma ancora più, delicatamente, incalzante, dove gli strumenti entrano in gioco un po’ alla volta, fino ad una seconda parte totalmente da club. Sensazione amplificata con il quinto pezzo, Y(S)L, che si apre con un incantevole sospiro di donna, e tiene l’ascoltatore sul filo dell’attenzione, imbalsamato e sognante, all’interno di un turbine di muri musicali. Solo qui riaffiora, verso la fine, l’essenza post rock quasi dimenticata nei 10 minuti precedenti, che chiude un cerchio immaginario e ci fa pregustare, con un battito d’attesa, il doppio finale.

JEAN VALJEAN, penultima traccia, ci dice che il rock, in Italia, e per gli ANNA OX, non è un capitolo concluso. È un inizio, è una potenza che sa essere dolce, una melodia che sa diventare atmosfera, in un crossover di suoni che leccano una ambient music che sempre ci parla dal sottosuolo. Qui si respira il sottile filo del disagio, quello che pare la conclusione di un ciclo: non è un caso l’esplosione del quarto minuto, non è un caso che il viaggio venga incluso nel secondo pezzo più lungo dell’album, dopo quello che lo chiude, che prende il nome da quella magica eroina della nostra infanzia che è LADY ISABEL. Sei minuti abbondanti di musica delicata a crescere, in una ricca realtà sintetizzata che non mi stupirebbe se fosse già, ora, al primo disco, assolutamente adatta a festival del calibro del Sonar di Barcelona, così atti ad accompagnare in una esperienza eterea l’ascoltatore attento, e divertire semplicemente quello occasionale.

Ce lo siamo gustati e l’abbiamo vissuto tutto d’un pezzo, Back Air Falcon Dive {sopra vedrete la splendida copertina di Stefano Bosi Fioravanti}. Nato in una realtà locale, prodotto da To Lose La Track & Laroom Records, in quel laboratorio musicale che è Laroom, in una città fulgida musicalmente più per nomi singoli, come i Kuadra e Lo Stadio Animale, che per un movimento comune, può davvero aspirare ad essere uno degli album più riusciti del panorama italiano del 2019. Se pensate realmente che stia esagerando, vi aspetto al varco l’1 marzo, tra due settimane, quando potrete ascoltarlo tutti voi, che avete speso minuti per leggere questa recensione.

Mi darete ragione, ne sono certo.