MUSE @ Rock in Roma

Istintivamente dovrei iniziare il mio racconto con una imprecazione verso il pubblico, ma sarebbe un po’ troppo violento, quindi cerchiamo di spiegare un po’ di cose. Il 18 luglio, in occasione del Rock in Roma, all’Ippodromo delle Capannelle si è tenuta l’unica data italiana del recente tour europeo dei Muse.

Il fermento era tanto, testimoniato da quei prodi guerrieri che già dal 17 pomeriggio erano in fila per conquistare la transenna, il caldo pure. Riusciamo ad entrare intorno alle 15:30 e ci accaparriamo un buon posto sul lato alla destra del palco, da quel momento è solo caldo, attesa, ancora caldo e qualche sporadica gita ai nebulizzatori sparsi per il festival. Stendo un velo pietoso sull’organizzazione, che a due anni dalla mia prima visita si conferma pessima come al solito, e sull’acustica della location, che definire imbarazzante sarebbe comunque un complimento.

Arrivano le 20:45 e con loro i Nothing But Thieves, gruppo londinese il cui album di debutto uscirà a metà ottobre. I cinque riescono a scaldare a dovere il pubblico romano, regalandoci anche una bella cover di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin.

Alle 22:10 circa calano le luci ed ecco salire i Muse sullo sfondo di “Drill Sergeant”, per poi partire a mille con “Psycho”, con la quale il pubblico salta e si scatena. Sembra esserci il delirio e poi… poi il nulla più assoluto. Dopo “questo brano la stragrande maggioranza del pubblico (fortunatamente non tutti) sembra diventare una massa amorfa, troppo impegnata a riprendere il concerto con lo smartphone o con GoPro per saltare e farsela prendere bene. Non tocchiamo il tasto dolente del pogo, che quando abbiamo iniziato ad accennarlo il tipo vicino ci ferma dicendo che non riusciva a riprendere bene se facevamo tutto questo casino. L’odio.

Momento degno di nota è stato quando Matt è ricomparso sul palco imbracciando la fedele sette corde per poi partire con “Citizen Erased”, pezzo che persone al loro sesto concerto dei Muse non avevano ancora mai sentito dal vivo. La stragrande maggioranza del pubblico, però, non reagisce come dovrebbe, alcuni si guardano intorno senza comprendere cosa stia succedendo, altri chiedono “scusa ma ‘sto pezzo che è? una cover?”. Ovviamente questo è lo stesso pubblico che va in visibilio su pezzi come “Starlight” o “Madness“, quindi non ci possiamo aspettare molto.

La scaletta va dritta senza troppi intoppi, ci sono i classiconi che non si schiodano mai (vedi “Time Is Running Out” e “Supermassive Black Hole”), i pezzi del nuovo album Drones (“The Handler” su tutte) e qualche pezzo meno scontato come “Apocalypse Please”. Si arriva alla conclusione presto, anche troppo (se non contiamo l’interludio prima di “Hysteria” e la “Munich Jam”, di netto sono stati suonati solo 16 pezzi), e sulle note di “Knights Of Cydonia” i Muse ci salutano, ed ecco Dom prendere il microfono per ricordarci che siamo “fucking amazing”.

Insomma un concerto che è andato bene ma nel bene è andato male. I pezzi c’erano, “Citizen Erased” c’era (ed era, a detta di setlist.fm, dal 2006 che non veniva suonata in Italia), i Muse erano carichi ma sfortunatamente il pubblico non lo era altrettanto. Il giorno dopo rimane una forte amarezza, quell’amarezza per cui capisci che il pubblico italiano, almeno in questa occasione, ha ottenuto quello che si meritava (tipo “Madness” come prima canzone dei bis), e la consapevolezza che la prossima volta per vederli come si deve sarà meglio andare all’estero.

Francesco Canalicchio