Sanremo 2024: vince “la noia”! (non è una critica ad Angelina Mango)

In questi giorni in cui le polemiche sono ancora calde e continuano ad arrivare dichiarazioni e retroscena, tirare le somme di questo FESTIVAL DI SANREMO 2024 non è facile.

Innanzitutto non possiamo fare lo stesso discorso che abbiamo fatto per le edizioni precedenti (vedi i nostri articoli qui), in quanto non è stata un’edizione di Sanremo come le altre, non fosse altro perché era l’ultima (almeno così è stato dichiarato) della gestione Amadeus.

La novità portata da Amadeus nella sua direzione artistica di Sanremo, a partire dal 2020, consiste in una mossa astuta, furba, in un certo senso quindi molto cinica, quanto necessaria: la riconnessione tra mondo della canzone italiana e mondo discografico che ai giorni nostri significa anche prettamente mondo giovanile.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, innegabile: i giovani si sono riavvicinati (o avvicinati per la prima volta) a una kermesse che (già con questo modo antiquato di definirla) era diventata un noiosissimo e pesante polpettone in un pranzo domenicale con solo parenti anziani.

Nel complesso lo spettacolo di Sanremo ne esce svecchiato, ringiovanito, frizzantino, accattivante (complici anche alcuni colpi di fortuna come la celeberrima sceneggiata Bugo-Morgan, prima di una serie super prolifica di produzione di meme) e quindi recuperando tantissimo in share.

Perché, non dobbiamo dimenticarlo, quello a cui abbiamo assistito in questi giorni come ogni febbraio dal 1951 è a tutti gli effetti, uno spettacolo televisivo. E come tale andrebbe preso, come uno spettacolo televisivo con tutti i pro e i contro che ne conseguono.

Quindi, proprio in quest’ottica esaminiamo le caratteristiche dell’ultima edizione e le questioni che tuttora animano e infiammano l’opinione pubblica e il circo mediatico intorno a Sanremo 2024.

CLASSIFICHE E CLASSISMO

Per quanto riguarda la questione di Geolier e il televoto, la dinamica è abbastanza semplice: abbiamo una canzone oggettivamente insulsa, il cui testo non è comprensibile a tutti perché fa uso del dialetto napoletano (contravvenendo a un regolamento che non lo ammette e che Amadeus ha cambiato appositamente per includerla) e poi abbiamo un popolo che la vota in massa, forse in cerca di una bandiera da issare (come se non ce ne fossero abbastanza nella tradizione musicale italiana dal melodico e neomelodico, da Gigi D’Alessio, fino a Clementino e Rocco Hunt).

La suddetta canzone, grazie al televoto, arriva a vincere la gara delle cover (che sarebbe più corretto definire dei duetti, dato che molti hanno pateticamente portato i propri stessi brani) nonostante la sua performance non sia paragonabile ad altre per intensità e tecnica. La gente in sala protesta giustamente ma esagera nel non portare rispetto a un artista che comunque ha esibito la sua emotività e il suo talento; giornalisti e addetti ai lavori calcano questo caso con toni anche pesanti (ma sostanzialmente sinceri).

Questo poi viene interpretato come antimeridionalismo (ma la vincitrice che ne ha giovato viene dalla Basilicata e poi non sarebbe stata la stessa cosa con un artista del Nord? Non ci fu una polemica pressoché identica due anni fa riguardo a un rapper milanese favorito in quanto marito di una nota influencer che ha poi co-condotto il Festival?)… Addentrarsi nella polemica sugli stereotipi contro i napoletani non ha molto senso visto che si parte da elementi che sembrano confermare la fondatezza dello stereotipo.

E la polemica si ribalta quando, nella serata finale, il voto della sala stampa nega la vittoria al suddetto rapper, secondo l’accusa arrivando a un “voto utile” in chiave anti-Geolier (incredibile, chi l’avrebbe mai pensato?!)…

Al netto del fatto che non si sa se i voti da casa siano stati effettivamente conteggiati bene (a molti, compresa la nostra redazione, non sono arrivati i messaggi di conferma) e su questo c’è un’indagine del Codacons, qualcuno ha ricostruito che la percentuale di televoto in favore del rapper partenopeo, pur essendo uno schiacciante 60% non sarebbe bastata a ribaltare il risultato delle altre modalità di voto. Sarebbe più utile chiedersi perché ci sia questo distacco tra ciò che viene apprezzato dal pubblico e dai giornalisti.

Diverso, e sicuramente grave, è il discorso fatto da qualcuno che ha denunciato non solo la combine avvenuta in sala stampa ma che nella stessa erano presenti persone ben poco qualificate, tanto da non sapere chi fosse Geolier e ignorare i suoi importanti primati in termini di ascolti streaming, accusa che andrebbe verificata e in questo caso significherebbe che c’è qualcosa da cambiare.

Ma il punto è che, anziché gridare allo scandalo evocando disparità di potere tra giuria e popolo come tra classi sociali, bisogna ricordarsi che questa divisione del voto in tre parti, con esiti spesso completamente opposti, non è evidentemente un caso e va avanti da anni. Niente di nuovo sotto ‘o sole mio.

MEDIO ORIENTE E OCCIDENTE ESTREMO

Chi è informato sulla questione del Medio Oriente sa bene che esiste la censura e che questa si configura come filtro mentale e cognitivo prima che come effettiva e coercitiva privazione della libertà di parola.

Che significa questo? Che non dobbiamo stupirci se un Festival in cui si ritiene opportuno (prima di ritrattare e proporre una più timida lettera) l’intervento del premier di uno Stato che è parte in conflitto, ritenendo quindi che esista una “parte giusta” dalla quale schierarsi in una guerra (Sanremo 2023), poi si ritenga invece inopportuno e parziale esprimersi su qualcosa che non è un conflitto con due eserciti schierati ma una persecuzione etnica che ha violato ogni convenzione sui diritti umani.

È quest’ultimo concetto che si è trovato a dover spiegare il povero Dargen D’Amico quando ha aggiustato il tiro della sua prima dichiarazione, dicendo che non era sua intenzione “fare politica” ma occuparsi di ciò che si condivide e quindi richiamare all’umanità (sbagliando a sua volta le parole perché fare politica in teoria significa proprio questo).

Non stupisce che la reazione di Amadeus sia stata quella di proseguire con lo spettacolo come se nulla fosse (tranne dopo il messaggio di Ghali al quale si può sentire un flebile “bravo” appena sussurrato, messaggio che ovviamente non figura nel video dell’esibizione caricato su Rai Play) salvo poi dire di condividere il messaggio in conferenza stampa (guarda qui).

Non stupisce che dall’organizzazione del Festival non sia arrivata una parola di solidarietà, mentre, come gli altri anni, sono stati messi in scaletta diversi messaggi sociali contro le discriminazioni e la violenza o espressioni di movimenti di protesta come quello degli agricoltori, momenti come al solito gestiti in modo discutibile e non sempre riusciti.

Ma bisogna rendersi conto di quanto effettivamente viviamo in un clima di censura, sapendo che essendo il nostro Paese completamente schierato con USA e Israele, una narrativa non allineata non può essere portata negli organi di comunicazione che essendo controllati dal governo hanno un’ottica tutta “occidentale”.

Il problema è stato espresso in maniera sintetica ed efficace da un’altra presenza che ha brillato nel contesto di Sanremo, portando un po’ di luce e di intelligenza: Teresa Mannino. In conferenza stampa, parlando del caso di John Travolta, la comica ha detto una cosa molto seria:

 

Lo si è visto ancora meglio nella classica ospitata post-festival a Domenica In, dove una Mara Venier in gran spolvero, dopo tanto entusiasmo per le effusioni ricevute da Dargen gli ha brutalmente tolto la parola nel momento in cui stava dicendo una cosa molto scomoda ovvero, testualmente, “quello che gli immigrati immettono nelle nostre casse per pagare le nostre pensioni è più di quello che spendiamo per l’accoglienza”.

Lo ha interrotto prima dicendo “qui è una festa” e “qui stiamo parlando di musica” (cosa che sinceramente non sembrava fino a quel momento) poi giustificandosi col fatto che non c’era tempo per approfondire quei temi e, passando al prossimo ospite (la vincitrice Angelina Mango), ha fatto una strigliata ai giornalisti in studio che “la mettevano a disagio” come nella peggiore tradizione democristiana.

In più a fine programma ha letto un comunicato dell’Amministratore delegato Rai Roberto Sergio che prendeva le distanze da quanto detto da Ghali (contro cui si era scatenato anche l’ambasciatore della comunità ebraica di Milano) dicendo:

“Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta”.

Quasi a ribadire che le vittime sono solo quelle israeliane del 7 ottobre e non le decine di migliaia che sono seguite (e precedute) a quella data, cosa che Mara Venier ha detto di condividere. C’è sempre questa tendenza da un parte ad accettare il messaggio solo se accompagnato dalla condanna dell’attentato del 7 ottobre, quando invece se non si ammette che una cosa possa essere slegata dall’altra si sta implicitamente dicendo che non la si vuole prendere in considerazione per la sua tragicità a prescindere e che quindi una è giustificata dall’altra. E allora è meglio far passare tutto sotto silenzio.

Conoscendo come i media manipolano l’informazione è facile accorgersene ovunque: lunedì al TG1, in un veloce resoconto su Sanremo, la canzone di Ghali è stata descritta semplicemente come “il dialogo del cantante con un alieno”, tralasciando completamente il tema della guerra e i riferimenti specifici ai bombardamenti sugli ospedali.

Insomma, è grave che si cominci a mettere in discussione anche la libertà di espressione di un artista che porta messaggi che non sono politici ma di solidarietà davanti a un pubblico perché fa quello di mestiere e che si senta invece il bisogno di un contraddittorio atto a equilibrare le posizioni (così si è espresso Ignazio La Russa) o di una replica da funzionari e personaggi importanti, come se fossero altri rapper offesi da un dissing.

In un mondo normale tutti quelli che sono saliti sul palco di Sanremo avrebbero dovuto manifestare empatia verso le vittime innocenti di una tragedia che si sta compiendo sotto i nostri occhi.

Ma quando c’è questo clima, bisogna sapere che dire qualcosa è sempre meglio di niente e quei pochi che si sono espressi vanno lodati perché hanno sfidato l’omologazione, il vero pericolo in quanto vero motore delle dittature, rompendo un muro di silenzio che ricopre paradossalmente anche il mondo della comunicazione.

Grazie alle poche voci che si sono levate a Sanremo, ora tutti stanno parlando di una questione su cui prima c’era il silenzio.

DIGNITÀ TRAVOLTA

Abbiamo citato indirettamente la vicenda di John Travolta e va sicuramente fatta menzione a quello che è stato decisamente il momento più basso delle cinque serate ma anche questa non è una novità: era frequente anche nelle edizioni precedenti la trovata di invitare grandi personaggi dall’estero al di fuori del settore musicale, come se c’entrassero qualcosa con un festival della canzone.

Certo, magari non gli si faceva ballare il “ballo del Qua Qua” ma si è sempre trovato un modo per perdere tempo con cose completamente inutili. Tra l’altro doppiamente flop per la questione della pubblicità alle scarpe, anche questa una cosa che va accertata ma che la dice lunga come gli sponsor di Eni e il green washing negli scorsi anni.

“QUI SI STA PARLANDO DI MUSICA!”

Tornando all’aspetto prettamente musicale, o – per citare Mara Venier – “Qui si sta parlando di musica!!!”: l’operazione di Amadeus ha sapientemente captato l’importanza di escludere i soliti Albano, Milva, Amedeo Minghi e Mietta in favore di un proliferare di esordienti rapper, trapper, giovani cantautori indie e tutto ciò che offre/richiede il mercato musicale ovvero il mondo discografico, che non è più quello dei CD comprati all’autogrill ma quello dell’egemonia di Spotify.

Quindi se da un lato si trae giovamento dall’abbandono di schemi troppo classici, dall’altro si assiste a un appiattimento e un’omologazione di testi e musica confezionata per diventare tormentone radiofonico.

In questo senso si può avere dal Festival di Sanremo appena trascorso un’impressione doppia: se prendiamo i testi e i significati delle canzoni o la varietà musicale non ci sono grandi brani che colpiscono e che rimangono (esattamente come gli scorsi anni, tranne qualche rara eccezione). Sembra che si sia persa la tendenza a portare il meglio a Sanremo un po’ come se bastasse il fatto di andarci.

Se invece consideriamo la musica, abbiamo goduto di un insieme di canzoni sicuramente molto orecchiabili e ballabili (escludendo Renga & Nek, Maninni, Irama, Alessandra Amoroso e Negramaro), una “musica leggera” perfetta “per chi ha voglia di niente” che però è sicuramente meno noiosa rispetto a quando conduceva Pippo Baudo.

Anche se continua quella sensazione di “già sentito”, se non proprio di plagio, che caratterizza ogni Sanremo (quasi ogni brano è copia più o meno sputata di un altro famoso), si è notato fin dall’inizio che a livello musicale le produzioni sono sicuramente più entusiasmanti e coinvolgenti.

Peccato che la noia riesca comunque a trionfare (e non parliamo della canzone “La noia” vincitrice del Festival), a causa dei momenti puramente televisivi: quelli portati da Fiorello, che convince molto di più quando rimane fuori dall’Ariston, da Amadeus, dall’idea contorta di far presentare i cantanti ad altri cantanti, dagli artigiani della qualità seduti sul divano, dagli sponsor, dai monologhi e dai vari ospiti, quasi tutti evitabili (ad eccezione del momento toccante con Allevi).

Insomma, alla fine dell’era Amadeus, non si può non riconoscere al conduttore di aver reso il Festival di Sanremo più leggero, più divertente, più accessibile, ma anche inevitabilmente più repellente verso i contenuti di spessore e più evidente per quello che, in definitiva, è sempre stato: un bellissimo contenitore vuoto.

Quindi se guardiamo a Sanremo come un contesto in cui cercare qualità musicale e contenuti rimarremo sempre un po’ delusi; se invece cerchiamo musica commerciale che però non sia noiosa, allora stiamo vedendo la cosa giusta. 

A proposito di noia, concludiamo con una nota positiva e che fa ben sperare. La canzone vincitrice “La noia” di Angelina Mango è prodotta da un’etichetta indipendente (La Tarma Records), un motivo in più per essere contenti della sua vittoria e chissà che non sia l’inizio di una nuova epoca meno “commerciale”…