“Latlong” tra natura e mito: la nostra intervista ai CAMPOS

Nato a Berlino e registrato ad Arezzo da un gruppo pisano: “Latlong“, è l’ultimo album dei CAMPOS ovvero Simone Bettin (cofondatore dei Criminal Jokers con Motta e Maestro Pellegrini), il musicista e producer Davide Barbafiera (che è anche attore e collaboratore di Gipi) ai quali si è aggiunto il bassista Tommaso Tanzini.

Uscito il 27 novembre 2020 e nel giro di poco tempo ha raccolto tantissime ottime recensioni positive e giudizi positivi della critica. Avendoli già conosciuti e visti dal vivo abbiamo pensato di approfondire anche noi la loro evoluzione, ponendo qualche domanda su Latlong.

– Innanzitutto, grazie per averci concesso questa intervista. Cominciamo col dire che ci è piaciuto molto quest’ultimo disco. Ma anche i precedenti. Infatti, vi ho visti dal vivo a Gubbio nel 2019 e siete stati talmente convincenti live che ho subito comprato entrambi i vostri CD. Quindi possiamo garantire sulla qualità della vostra musica, anche dal vivo.

 Riguardo a quest’ultimo lavoro, se vogliamo trovare una particolarità che vi caratterizza ce n’è subito una che attira l’attenzione: avete coniato un neologismo che costituisce il titolo del vostro ultimo disco “Latlong“, una sintesi di “latitudine” e “longitudine”. Ed effettivamente l’album offre varie suggestioni riguardo a viaggi di esploratori, avventura, vulcanologia e geografia, acqua celebrata in quanto datrice di vita, corsi d’acqua che in quanto tali conferiscono al tutto una scorrevole fluidità, un flusso mistico sonoro, una sorta di viaggio verso altri mondi attraverso il nostro mondo da esplorare.

Un’offerta, tra l’altro preziosa per tutti in un momento in cui non si può viaggiare e sono limitati anche i più piccoli spostamenti. Ma, avendo ascoltato i vostri dischi precedenti, direi che questo tipo di atmosfera è evocata in generale nel vostro modo di fare musica. Credete che questa possa essere una vostra caratterizzazione come band?

– Da quando abbiamo cominciato a fare musica insieme, siamo sempre stati affascinati dall’idea di costruire un mondo sonoro all’interno del quale l’ascoltatore potesse perdersi. Volevamo che i nostri brani scorressero in maniera naturale, che fossero apparentemente semplici e di facile ascolto ma che allo stesso tempo, strato dopo strato, svelassero qualcosa di più profondo e complesso al loro interno.

In questo modo potevamo dare varie possibilità di lettura e interpretazione della nostra musica. Quest’idea abbiamo provato a riproporla in ogni nostro lavoro, cercando ogni volta di approfondirla e portarla avanti.

– Questo atteggiamento di cui sopra si connette e si sposa benissimo con il genere che fate, ipnotico, sentimentale e intimistico ma molto incrociato con il folk nel senso più ampio del termine. Cosa pensate dell’aspetto più nascosto del folk, legato alla dimensione mitologica, ma al tempo stesso più vera, in quanto ancestrale, dell’essere umano? Credete che vada scoperta e maggiormente messa in luce nel campo musicale o è giusto che rimanga in qualche modo un elemento sotterraneo?

– Sicuramente affascina. Noi, in piccola parte, ne traiamo spunto. Spesso lavoriamo con loop di batteria elettronica accompagnati da arpeggi di chitarra e questo crea già di per sé una sorta di base ipnotica sulla quale poi possiamo costruire il resto.Per quanto ci riguarda ci sentiamo un po’ nel mezzo, siamo legati sia alla dimensione più mistica e sognante che alla parte più razionale della musica.

– Questo incrocio tra “latitudine” e “longitudine” in “Latlong“, questo spaziare geografico esplorativo, e le diverse suggestioni musicali, riflettono anche il vostro essere “cittadini del mondo”, con provenienze geografiche miste, nel senso che la vostra carriera nasce in un improbabile incrocio tra Pisa e Berlino. La particolarità della vostra musica dipende quindi anche da questi vissuti in posti così diversi?

– In parte sicuramente ha risentito delle nostre esperienze, dei posti dove abbiamo vissuto, le persone conosciute, eccetera. Altrettanto importanti però sono le influenze musicali di tutti e tre e la visione che abbiamo del modo in cui fare musica, quindi la musica che facciamo è il frutto di un miscuglio di ogni singola personalità ed esperienza. Sicuramente siamo tutti e tre d’accordo sul fare musica spingendoci verso strade ancora sconosciute e cercando ogni volta di stupire noi stessi. 

– Sempre parlando di influenze, quali sono i vostri punti di riferimento musicali (ma se volete anche letterari, filosofici, artistici, ecc.)?

– Per quanto riguarda i riferimenti e gli spunti che hanno influenzato Latlong possiamo sicuramente citare in ordine sparso Sparklehorse, Yasujiro Ozu, Kurt Vonnegut, Werner Herzog, Ovidio, Sebastien Tellier, Mort Garson, MGMT, RZA dei Wu-Tang Clan,  J-Dilla, Bob Dylan, Suicide, Psychic TV…

– Come è avvenuto e come avete maturato nel vostro percorso il passaggio dai testi in inglese all’italiano? Dietro questo cambiamento c’è anche una volontà di essere maggiormente compresi?

– È successo in un modo secondo noi abbastanza naturale. In realtà qualcosa in italiano l’avevamo già scritta anche prima di far uscire “Viva”, quindi non eravamo totalmente a digiuno. Volevamo confrontarci con la nostra lingua, continuando però a riprodurre le atmosfere e le sonorità che avevamo ricreato con il nostro primo lavoro.

Ci siamo concentrati sul trovare le parole giuste, essenziali, spesso legate alle sensazioni e alle immagini. Volevamo qualcosa che accompagnasse la musica e che allo stesso tempo si facesse accompagnare da questa, in modo da lasciare all’ascoltatore la libertà di interpretare e di lasciarsi trasportare dal brano nella sua totalità, dal suo essere insieme di musica e parole.

Per far capire agli ascoltatori cosa c’è dietro a un prodotto di buona qualità a livello musicale al giorno d’oggi, sospeso tra elettronica e strumenti, tra digitale e analogico, potreste svelarci quali sono gli strumenti e i vari suoni presenti in questo disco nella sua complessità apparentemente semplice?

– Adottiamo varie tecniche: prima fra tutte il caso. Poi ovviamente sfruttiamo la conoscenza che abbiamo di uno strumento e la consapevolezza del suono che vogliamo ottenere. Ma spesso succede che dopo vari tentativi, dopo essersi persi per un periodo indefinito su un certo suono, si arrivi casualmente ad un risultato che ci soddisfa, per caso intendiamo questo.

Per questo riguarda gli strumenti abbiamo utilizzato batterie elettroniche analogiche (Eko e TR-08) e digitali, suoni registrati da noi e poi rielaborati oppure direttamente campionati, sia da dischi che da librerie audio.

Quasi tutti i suoni di Synth sono stati fatti con il “Juno-60” mentre le chitarre e i bassi gli abbiamo registrati in parte in casa e in parte in studio. Tenevamo quello che ci convinceva, nonostante fosse sporco, leggermente fuori tempo o suonato male, il resto lo cestinavamo. Infine, abbiamo mescolato tutto.

Come abbiamo già detto vorremmo che la nostra musica scorresse in maniera molto naturale e istintiva, di facile ascolto se mi passi il termine. In realtà dietro, o sotto, le canzoni nascondono una ricerca sonora più profonda, ritmi incastrati e melodie bizzarre. Questa è la parte di noi che si diverte di più. Quando cerchiamo di rendere tutto storto e poi proviamo a raddrizzarlo. Sarà l’influenza della Torre!

– Ascoltando i vostri dischi sembra che la natura sia sempre molto presente; si può dire che è la vostra musa ispiratrice?

– Sinceramente è sempre successo in modo naturale e istintivo. Diciamo che ci interessano gli esseri umani e l’ambiente che li circonda.

– Per quanto la situazione attuale non permetta di fare grandi programmi, avete progetti in ballo? Idee per il futuro?

– Abbiamo qualche idea ma aspettiamo a parlarne, siamo scaramantici.

Nonostante sia definito dalla stessa band “un disco che fa acqua da tutte le parti” (per la presenza costante di questo elemento nelle tematiche dei brani), consigliamo vivamente Latlong (che potete ascoltare qui) e tutta la discografia dei Campos. Ecco il video di Sonno, singolo che lo ha anticipato.