Una nuova “SPERANZA” per il rap italiano

Attenzione! Questa non è la solita roba da rapper: per quanto siamo sempre nell’ambito delle narrazioni di strada e delle periferie, di droga e criminalità (e anzi, ancora più del solito, parliamo di un soggetto che sembra uscito da serie TV come Gomorra), siamo anche di fronte alla dimostrazione che presso le giovani generazioni, sepolti dalle nuove mode e i nuovi linguaggi, prendendo in prestito una frase di Margherita Vicario, “all’orizzonte c’è SPERANZA“.

Una “speranza” per il rap italiano in quanto rappresentazione di una genuinità insolita, di un senso di appartenenza forte alle proprie radici che porta a non snaturarsi, pur essendo moderno e attuale. 

E, facendosi strada tra i suoi testi come in una jungla fitta di dialetti e lingue miste, lo si vede chiaramente nell’album di debutto, “L’ultimo a  morire”, uscito per Sugar Music il 16 ottobre, arrivato al terzo posto nella classifica FIMI degli album più venduti in quella settimana.

Il rapper Speranza, che ha duettato dal vivo anche con un grande della musica popolare partenopea come Enzo Avitabile, rappresenta e incarna al meglio l’archetipo dell’italiano, anche e soprattutto nella sua unità di aspetti diversi, nella commistione di etnie e culture: rappresenta al tempo stesso la furbizia e l’ingenuità, il giocare sporco e la purezza, la perdizione e la redenzione, la povertà e l’ostentazione. 

Già dal nome di battesimo, Ugo Scicolone, è tutto un programma di italianità verace e al tempo stesso dei suoi luoghi comuni più caratteristici: il nome di Fantozzi e il vero cognome di Sophia Loren.

Rapper muratore, italo-francese, anzi, orgogliosamente mezzo francese e mezzo casertano, caratterizzato da una voce riconoscibile graffiata e grezza, da urlatore rabbioso, e una parlata nelle interviste invece dimessa, balbettante e piena di tic,  Speranza si sta sempre più affermando.

Soprattutto con quest’ultimo album ampiamente lodato dalla critica, in cui ha ottenuto collaborazioni praticamente con l’Olimpo del rap italiano attuale da Gué Pequeño, a Tedua e Massimo Pericolo con le produzioni di beatmakers come Don Joe, Night Skinny e gli elettronici Crookers.

In effetti, o ha un ottimo manager oppure è veramente un autore molto bravo nello scegliersi una strategia di marketing; fatto sta che il gioco di parole nel titolo che unisce il nome Speranza alla definizione “L’ultimo a  morire”, è perfetta come raccolta dei suoi tratti distintivi in un album di debutto, volto a definire e presentare il personaggio.

Soprattutto perché il tema della speranza che, secondo il detto, è appunto “l’ultima a morire”, è ripetuto qua e là nell’album come filo conduttore.

Dopo averlo già apprezzato in vari episodi, tra i quali per esempio la parte ottimamente svolta nel bellissimo singolo Romeo di Margherita Vicario, non possiamo non notare come, con quest’ultimo lavoro, Speranza si ponga nel rapgame (e pure nel sottogenere gangsta e decisamente street), in un modo molto singolare.

Infatti interpreta un ruolo, in quanto, in modo credibile e attuale, sventola le bandiere delle minoranze, dell’integrazione, e della multi-culturalità, in parte percepibile anche nelle diverse sonorità.

Non a caso il disco parte secco, diretto, senza tanti fronzoli introduttivi, con il suo tipico rap urlato, con una tematica sociale: si apre infatti con una dedica ai “frate minacciate dalle autorità” e si chiude anche con una dedica particolare, dichiarando due barre dedicate alle vittime di Gaza, dimostrando un’attenzione ai popoli della Palestina e in generale ai temi sociali, non comune tra i rapper emergenti odierni e già espressa in passato.

È evidente quindi che il primo pezzo non è una intro come spesso si usa per riempire ma è già un pezzo cardine, in quanto la crasi nel titolo, Casertexas, è un’evidente descrizione di analogia geografica, importante e ben riuscita.

Qui è presente anche un verso che specifica la particolarità della carriera artistica di Speranza, trovandosi ad essere definito “emergente” nonostante abbia già 34 anni e avendo in realtà iniziato a rappare già a 12: “So’ dieci anne ca nun faccio na cosa del genere / Pure vinte ca martello ma me chiammene emergente”.

Inoltre, già da questo primo pezzo, si evince una netta crescita dal punto di vista linguistico e di significati, infatti colpisce il riferimento all’episodio di Salvini che citofonava agli spacciatori in “Tengo ‘o buono d”o buono / talmente che è buono che Matteo vene a citofonà”, o il raffinato e crudo gioco di parole nella frase “Tengo ‘a guerra ‘ncapa perciò bevo birra lager”.

Oppure la dichiarazione ironicamente snob “Sul cantiere vesto solo Maipei”, dettaglio non di poco conto. Sì, perché nonostante il successo che sta riscontrando, Speranza rimane umilmente ancorato al suo lavoro di muratore che continua a portare avanti in parallelo all’attività musicale.

E l’originalità la dimostra proprio con questi dettagli, come il fatto che parla si, di bisboccia tra alcool e droga come i suoi colleghi, ma con birra Peroni e Tavernello.

E che, in un mondo ormai saturo di contenuti di basso livello incentrati sull’ostentazione/ricerca della ricchezza, del lusso, del successo sfarzoso e in cui le metafore e le narrazioni più ricorrenti sono citazioni di marche di vestiti e gioielli, lui è ricorso all’uso di brand di tute a basso costo, tipiche del sottoproletariato urbano (vedi l’eloquente Givova).

Ciò si ritrova soprattutto in Fendt Caravan: qui, al solito uso ricorrente di nomi di auto potenti e di lusso, il rapper italo-francese contrappone la stessa retorica spaccona da rapper ma con le roulotte usate dagli zingari.

Inoltre, in questo pezzo troviamo anche la dichiarazione di apprezzamento di artisti di altri generi e di altre etnie come quella rom, ricorrente anch’essa nei riferimenti del rapper.

Nei testi, sono fondamentali i concetti espressi con frasi quali “i soldi ti fottono, je me fotto ‘e sorde” e lo stimolo a cercare di fare lo sforzo di approfondire, di capire, anche questi testi pieni di dialetto e francese tossico, invitando a superare la superficialità dilagante.

C’è quindi anche una dichiarazione di indipendenza dai canoni del rap: per esempio, in Chinatown (feat. Gué Pequeño) dichiara, ponendosi in contrapposizione con i canoni di purezza dell’hip hop: “Ma che cazzo me ne fotte d’ ‘a morte ‘e Biggie e Tupac?”.

Troviamo poi la ripetizione del suo slogan ricorrente Spall ‘a sott (modo di dire casertano legato alle processioni che si svolgono lì, quindi qualcosa di molto legato alle tradizioni) che, a proposito, arriva qui al quarto episodio della saga, con un’esplosione di metrica velocissima e potente; poi A la muerte, impreziosito dalla metrica serrata ed elegante di Tedua; e ancora Omm ‘i merd, con una base più funky-dance e il ritmo casinaro e ballabile della provocatoria 100 anni e la canzone d’amore orientaleggiante Iris.

E tutto questo passando per Camminante, in cui partecipa il massimo esponente della musica popolare rom dalle parti di Napoli, Rocco Gitano, trasmettendo il messaggio di uguaglianza “io songo nu guaglione napulitano comme a te”.

E poi c’è il brano Tekeo Ishi, in cui si paragona addirittura a un cantante giapponese che fa lo jodel tirolese, e, all’insegna di questa mescolanza, mettendo insieme Italia e Francia, Caserta e Milano, Cerignola, Gioia Tauro, Chinatown, cultura rom, italiano, napoletano, casertano, francese tossico, slang, arabo e, per finire, una punta di ucraino con il finale house tamarro di Russki Po Russki.

Del resto Speranza ha dichiarato più volte nelle interviste di ascoltare più che il rap generi come il manele, musica popolare rom, tanto da aver pubblicato singoli anche come Ugo de la Napoli, side project influenzato dalla musica rumena e gitana.

Quindi, per quanto sia parte di un genere e uno stile che a molti non piace, si tratta di un rapper dalla personalità ben definita, che suscita simpatia e che è interprete di un pot-pourri di nazionalità, lingue e culture ibride, in un campanilismo anti-barriere, un esempio vivente di ibrido etnico e di generi musicali.

Un rapper urlatore che esalta la bellezza di far convivere le diversità e sentire un senso di appartenenza che va oltre i confini, oltre il concetto di nazione o di Stato, per cui magari, come afferma in Iris, “ci trasferiremo nello stato di ebbrezza”.