IL RITORNO DI CAPAREZZA. LA RINASCITA NELL’ALBUM “EXUVIA”

«Un dubbio mi tallona e mi sta addosso:
Sarò già stufo di ogni mia canzone
Ma canto per nutrire un paradosso?»

CAPAREZZA è tornato!

Lo scorso 7 maggio, dopo quattro anni di quasi totale silenzio, il cantautore riccioluto dai versi più arguti d’Italia ha fatto il suo ritorno in scena con il suo ultimo album EXUVIA, pubblicato per Polydor/Universal, suscitando molto scalpore e riuscendo a stupire ancora una volta, anche per il modo diverso in cui si pone.

Infatti, proseguendo il percorso di cambiamento iniziato già con il precedente Prisoner 709, in Exuvia continua lo spostamento del focus verso temi più introspettivi e sonorità più cupe.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una sorta di concept album (al quale l’artista ci ha abituato), in cui come sempre non mancano messaggi nascosti e sorprendenti easter eggs, e il cui tema portante è quello suggerito dal titolo: l’esuvia, dal latino exuvia, ovvero la muta, l’esoscheletro lasciato dagli insetti, una perfetta copia di sé, come metafora di un cambiamento interiore, di una metamorfosi (dichiaratamente ispirata a quella di Kafka, anche per l’ambito entomologico, al quale, curiosamente, Caparezza si è sempre interessato).

Quindi una morte in funzione della rinascita, concetto ricorrente che chiama in causa una caratteristica già abbastanza chiara dell’artista e della persona Michele Salvemini in arte Caparezza, ovvero il dualismo e il paradosso

Caparezza Exuvia

Già la cornice visiva e simbolica è quella archetipica della foresta, la selva oscura, in un’ottica simile a quella dantesca, in cui contestualizzare il racconto di questo suo sentirsi smarrito e l’idea del far perdere le tracce di sé dopo l’ideale fuga dalla prigione di Prisoner 709. Addirittura, stando a quanto rivelato dall’artista nelle interviste, il disco originariamente si doveva chiamare “In mi selva” che è anche l’anagramma del suo cognome, Salvemini.

Lo si vede nell’imponente immagine di copertina (la chiamiamo così perché a ben vedere nella custodia del CD fatta a libretto ci sono due possibili copertine intercambiabili e l’assenza di scritte su quella ufficiale con il simbolo, oltre che mettere in secondo piano l’artista rispetto all’opera, potrebbe essere un indizio che quella vera è l’altra, un rovesciamento che potrebbe essere voluto e sarebbe in linea con la chiave di lettura qui proposta; così come lo è la citazione a Matrix nel posizionare ai lati opposti i colori rosso e blu della copertina del singolo La Scelta, che rimandano alla pillola rossa e la pillola blu, diventate simboli delle scelte importanti nell’immaginario collettivo).

Exuvia CD

La Scelta

Insomma, nella copertina “non ufficiale” vediamo la sua sagoma spettrale che vaga, come un’ombra confusa all’interno di un bosco buio e misterioso, “nella notte fantasiosa”. Ma le foto del booklet mostrano la stessa selva vista di giorno con sprazzi di luce che filtrano dagli alberi; come spiegato dall’artista la foresta è un simbolo, un emblema di un paesaggio naturale meraviglioso e al tempo stesso spaventoso. Ecco che anche in ciò si ripropone il dualismo.

Caparezza exuvia

D’altra parte l’autore stesso ha dichiarato che si tratta di un concept altamente cinematografico, visto che trova ispirazione nell’identificazione nei personaggi felliniani di Mastorna (protagonista del film mai realizzato di Fellini) e Guido Anselmi detto Snaporaz del celebre e che i vari brani citano diversi film.

Ma è molto di più: c’è l’ambientazione nella selva, c’è un costante riferimento tra le righe alla mitologia, e come abbiamo detto c’è il paradosso come costante.

Vediamo allora come questo sottotema sia sotterraneo in tutto l’album: nell’analisi traccia per traccia adotteremo questo concetto come chiave di lettura di un disco altamente enigmatico.

TRACK BY TRACK

La prima traccia si apre subito con una musicalità e una voce tristi, che rendono evidente il cambiamento: Canthology, come indica il titolo, è un’antologia cantata di elementi iconici di canzoni caparezziane in cui, contrariamente a quanto si fa solitamente nelle antologie, se ne parla male. Ripercorrendo le proprie stesse canzoni, l’artista crea un incubo caotico di immagini vivide, in cui i vari personaggi dei suoi vecchi brani gli si rivoltano contro e le parole dei suoi pezzi più famosi vengono declinate in senso negativo:

«Tipi che mi chiedono del tunnel / dammi una pala che me lo scavo»; «La mia parte intollerante / sta ingoiando tutto il resto»; «Tutti fanno il dito medio / pure Galileo / vedo Van Gogh con la vanga / sta inumando la mia salma / Filippo Argenti fa la calza / passa dai Carcass alla Callas».

Questi aspetti del suo passato glorioso ora sono sparpagliati nel caos, come viene dichiarato nel ritornello che prende spunto da Get away dei Droogs (da un album che guardacaso si chiamava Anthology, a dimostrazione, ancora più evidente nel singolo La Scelta, della cura maniacale nel citazionismo), qui reinterpretata da Matthew Marcantonio cantante dei Demob Happy, creando un’atmosfera rock psichedelica piena di pathos: «Things are scattered everywhere, no one seems to care, they’re trying to get somewhere, get away!». Questa frase è il riassunto perfetto di quello che l’intero disco comunica.

E questa era solo l’introduzione! L’inizio vero e proprio del viaggio avviene riprendendo l’idea dell’autore in fuga e proprio da qui, nel brano Fugadà, il Capa ragiona su come la fuga sia la sua dimensione, il suo modus vivendi, con un’impressionante impennata rap, un campionario di parti rappate che ricordano il vecchio stile graffiante e surreale di Caparezza negli anni 2000 ma contestualizzato in un’atmosfera inquietante e al tempo stesso armoniosa, moderna e trascinante.

A questo punto, il protagonista errante sente il richiamo di Una voce, la voce della selva che lo chiama a sé, che lo porta a intraprendere un vero e proprio sentiero, El Sendero, un cammino spirituale che riprende nel ritornello la splendida voce della cantante messicana Mishel Domenssain da un suo brano che porta proprio il titolo La selva.

Questi primi quattro brani introdotti da sonorità gotiche sono dominati dall’atmosfera cupa; ma poi inaspettatamente arriva una “tamarrata” che lascia esterrefatti: Campione dei Novanta, pezzo ipercinetico ed energico in cui, mettendolo a confronto con tanto piattume della musica attuale, viene rivendicato il rapper Mikimix, ovvero la prima exuvia artistica di Michele Salvemini dal cui abbandono nacque poi il nuovo personaggio Caparezza con lo scoccare dei 2000, passaggio evidenziato con la frase “dal pollice verso alla grazia cambiando un anno”.

Andando avanti, anticipato dalla skit La Matrigna che cita il Dialogo della Natura e di un Islandese, segue un pezzo che, prendendo a riferimento proprio la concezione leopardiana della natura e riflettendo su come questa abbia un lato oscuro, segnala la contraddittorietà nel vederla come buona e indicatrice della retta via, mettendo in evidenza che, per avere un atteggiamento moralmente superiore, andando oltre la semplice conservazione della specie, dovremmo andare Contronatura.

Al tempo stesso però è un’esaltazione della natura nel suo aspetto selvaggio e feroce, sottolineato dalla base dance, che tra suoni e rumori della giungla ricostruisce una danza tribale, evocativa, suggestiva e potente, come la foresta e i fenomeni naturali citati.

Quindi anche qui emerge la dimensione paradossale, che trova esplicitazione nel brano seguente, Eterno paradosso, dichiarazione molto distesa e melodica che mette in chiaro questo aspetto del suo autore e di questa fase che sta vivendo.

Da ciò si arriva al brano che ha anticipato l’album. Dopo l’annuncio poetico della skit Marco e Ludo, ecco La Scelta, in cui i suddetti personaggi, ovvero Mark Hollis dei Talk Talk e Ludwig van Beethoven, rappresentano due scelte opposte di fronte alle quali Caparezza si è venuto a trovare: sacrificare tutta la vita per la musica fino alla sordità come Beethoven, o abbandonare la carriera musicale per vivere la vita privata come Mark Hollis, concludendo in ogni caso con la chiusa “Questa è la mia vita, non dimenticarlo” (geniale riferimento a It’s my life, don’t you forget dei Talk Talk).

L’analisi di questo brano e del relativo video richiederebbero molto più approfondimento perciò rimandiamo all’articolo in cui ne abbiamo già parlato (link qui).

Diciamo solo che anche qui, in particolare nel video, emerge ancora una volta la centralità del dualismo e del paradosso, legato alla domanda posta sul futuro dell’artista: infatti il testo non indica quale sia la sua scelta ma le scene hanno una sequenza cronologica invertita, quindi sono visibilmente ispirate a Dark, serie TV citata tramite il simbolico impermeabile giallo, basata proprio su questo tipo di paradossi e sul motto il principio è la fine e la fine è il principio, e ne riprendono l’idea dei loop temporali, dando l’idea che non ci sia una scelta che prevale, o che l’una rimandi all’altra.

La logica del rovesciamento è alla base anche della canzone successiva, totalmente psichedelica, in cui Caparezza si descrive (ancora una volta) come colui che spiazza sempre, che se gli dai un consiglio farà il contrario, che quindi “Azzera pace“, il tutto su una base surreale con elementi suonati in reverse, a indicare che la soluzione è già nel titolo, che letto, appunto, al contrario, indica la definizione del personaggio: “è Caparezza“!

Arriviamo poi al brano più “politico” e che raccoglie un po’ tutta quella che potrebbe essere la sintesi dell’intero album. Preceduto dalla skit in spoken word Ghost Memo, insieme di appunti di una situazione critica in un contesto sonoro simile a quello della serie TV Chernobyl, un contatore geiger segnala le radiazioni di questo mondo malato in Come Pripyat.

Con la metafora della città-fantasma radioattiva abbandonata dopo il disastro nucleare di Chernobyl del 1986 e con il suo fascino inquietante, il fustigatore di costumi Caparezza comunica che non può più porsi allo stesso modo: “Non parlo al mondo come prima / ma parlo a vuoto come Pripyat”. E in ciò evidenzia come ci sia una sorta di rassegnazione al degrado della politica, del populismo e dell’ignoranza dilaganti (tema ripetuto più volte in vari brani) citando come esempio la presa che ha la mentalità leghista anche nel suo meridione, non senza frecciate più esplicite:

«Il tuo capitano ne sa poco più di un bar / guida con l’IPhone in mano e ci sei tu sul tram».

Il paradosso qui sta soprattutto nel fatto che la sensazione depressiva che trasmette il brano non è solo la condizione personale dell’autore ma descrive perfettamente la realtà statica e decadente in cui ci troviamo, vista proprio come in una quarantena (in modo assolutamente attuale), facendo un’analisi esatta della società del nostro tempo.

Infine le ultime tracce, più concettuali, trattano di veri e propri archetipi, temi universali (la finzione, la meraviglia, il tempo, la morte) ma da prospettive rovesciate: in Eyes Wide Shut, citazione delle maschere inquietanti e della doppia vita del protagonista del film di Kubrick, abbiamo un elogio della maschera.

E anche qui, tornando a parlare di Caparezza come personaggio e maschera dell’artista che sembrerebbe volersene disfare, siamo al paradosso: il personaggio toglie la maschera ma non ha una faccia, rivelando l’importanza delle maschere rispetto alla realtà e della finzione dell’arte rispetto alla vita vera.

Poi il rapper pugliese affronta la perdita della meraviglia (e quindi dell’ispirazione) rivolgendosi ad Alice di Alice in Wonderland nel brano Il mondo dopo Lewis Carroll e non poteva essere altrimenti visto che quello di Alice è il mondo dei contrari, il regno del paradosso.

Da questo ambito letterario, in cui ricordiamo essere fondante la considerazione filosofica sul tempo, dopo la skit tematica di connessione Pi Esse, si arriva quindi a Zeit!, la “quota stranezza” più strana delle altre: un delirio punk che riprende la batteria di Meg White del duo White Stripes, anche qui con una citazione musicale dichiarata (come già detto questo disco è figo anche per questo, il riferimento ispirato a tante altre opere musicali, letterarie, cinematografiche e non solo), con un ritmo volutamente fuori tempo a sottolineare il contenuto. Ovvero una critica al tempo (mutuata dalla Lettera al padre di Kafka), notando che è come se, paradossalmente, anche il tempo fosse invecchiato, visto che sembra essersi fermato ed essere diventato eccessivamente ripetitivo (infatti questo è l’unico brano composto e ispirato all’atmosfera del lockdown).

Chi invece svolge bene il suo lavoro è l’altro archetipo per eccellenza: la morte. Infatti, continuando la serie di riflessioni profonde sui classici temi esistenziali (ma poste da punti di vista originali), vediamo la triste mietitrice qui rinominata La Certa diventare una motivatrice per la vita.

E proprio dalla morte si arriva al suo superamento, nel finale che lancia il futuro: Exuvia (anche di questo abbiamo già parlato qui). La title track, vedendo anche il video, è un rito iniziatico fatto canzone, che oltre a costituire il concept dell’album, riprende i due concetti ricorrenti del dualismo dialettico e della natura (in cui nulla si perde e tutto si trasforma): la morte è una fase necessaria per la rinascita. Siamo alla fine, ma seguirà un nuovo inizio.

Quindi Caparezza ci lascia con questa idea, lanciando anche intravedere la concretizzazione di tutto ciò con le date del tour nei palasport previsto per febbraio 2022 (qui i link con le date e i biglietti acquistabili su Vivaticket e TicketOne).

CONCLUSIONI

In sintesi, si può ben vedere come il concetto del paradosso sia dominante come tema di fondo che sta alla base di tutto il concept di questo disco. E che, tornando alla questione sul futuro percorso artistico del suo autore, culmina nella domanda: Caparezza o non Caparezza? Annuncia una fine o è solo un momento di passaggio nel percorso di liberazione concepito come secondo momento di una trilogia che parte da Prisoner 709 e dovrebbe culminare nella libertà, come dichiarato dall’artista? E in questo caso: liberazione da cosa?

Coerentemente con il tema portante che abbiamo cercato di enucleare, possiamo dire che l’album ha provocato una spaccatura nella fanbase del rapper. Molti fan affezionati al vecchio stile sono rimasti delusi: sembra dichiarato l’abbandono del vecchio personaggio, della maschera folle degli anni 2000.

E arriva puntuale anche qui il mantra che si applica dopo un po’ a chi non ha una carriera fulminante (nel senso di breve): “è cambiato” (nella sua genialità, prevenendo tutto ciò, lo diceva già dal primo singolo diventato famoso, Il secondo secondo me: “Io no, no, no, no, non sono più quello di una volta”).

E addirittura si potrebbe dire che Caparezza è morto. Tutto porta a pensare alla sua fine come personaggio, all’abbandono delle caratteristiche che lo hanno reso celebre e apprezzato da una fetta di pubblico vasta ed eterogenea, per lasciare spazio a una forma più matura e in questo disco sicuramente si fatica a riconoscere il Caparezza che conosciamo.

Nei testi continua a ripetere che anche lui non si riconosce, che è cresciuto, cambiato, invecchiato (facendo anche riferimento esplicito ai ciuffi bianchi sempre più presenti nella sua capigliatura nera).

Tutto ciò è evidente nel retro di copertina dove campeggia inquietante e di grande impatto visivo la scultura che rappresenta la sua exuvia, il calco del suo personaggio con la folta chioma, il pizzetto, i pantaloni corti e i calzini dalle fantasie appariscenti, in posizione fetale, abbandonato a terra nella foresta.

 Exuvia retro copertina

Eppure…

Eppure ci sono dei pezzi in cui addirittura torna la voce caratteristica (più o meno nasale) e il suo modo di rappare graffiante, urticante, spiazzante, psichedelico, potente nel suo essere buffo.

Se a un primo impatto si potrebbe considerare superato, messo da parte il suo stile tipico e riconoscibile, fatto di voce gracchiante e ironia pungente, a ben vedere questi elementi ritornano, a dimostrazione del fatto che, per quanto ci sia l’intenzione di abbandonare il vecchio personaggio di Caparezza, questo sia di fatto impossibile perché è parte della poetica e della cifra artistica di Michele Salvemini, che sa essere altro e al tempo stesso non può che essere sempre se stesso, che si stufa di tutto e vuole sempre cambiare, rimanendo sempre coerente con se stesso; citando un vecchio brano dal significativo titolo Dualismi: “Non mi puoi uccidere perché / io vivo in te, tu vivi in me”.

Come nella questione centrale posta nel brano La Scelta, tutto sembra suggerire che l’artista vada in una direzione ma poi va in un’altra, forse per il solo gusto/bisogno di spiazzare, di essere contorto, non lineare, esattamente come ciò che ha sempre usato come suo simbolo e che rende il suo personaggio così riuscito: il ricciolo, l’essere riccioluto, rizomatico, mai lineare. E anche disordinato, caotico, schizofrenico, scapigliato (“come Boito).

Sembra quasi che stia lasciando una falsa pista, una contraddizione o, usando le sue stesse parole, un eterno paradosso: per quanto sembri voler abbandonare le sue caratteristiche distintive, queste ritornano prepotentemente a galla quando meno te lo aspetti, in quanto suoi punti di forza; e per quanto voglia farlo, levarsi la maschera è impossibile se la maschera è ciò che è più interessante ed è in fin dei conti la persona stessa (parafrasando Eyes Wide Shut).

In sostanza, proprio mentre autodichiara la sua morte, Caparezza è vivo più che mai. D’altronde non è la prima volta che Caparezza mette in scena la sua morte o vi si riferisce in qualche modo e come abbiamo visto, non è nuovo alle resurrezioni e rinascite artistiche. Morto un Capa, se ne fa un altro…

Per quanto riguarda l’abbandono dei temi politici e sociali, anche questo è relativo: sembra quasi che quanto più si rivolge a se stesso e al suo smarrimento o confusione interiore, tanto più riesce, paradossalmente, a tracciare lucide analisi di società e politica. Abbiamo visto in Come Prypiat, con qualche altro rimando qua e là, (vedi la decisa presa di posizione contro l’astensionismo in Azzera Pace), quanto questi elementi di critica siano ancora ben presenti (e non ci vada tanto leggero).

Lo stesso discorso vale per la situazione dell’ambito musicale: qui (e altrove) afferma che per quanto sia lui che sta invecchiando, cambiando, perdendo interesse, dedicandosi di più alla vita reale, le incomprensioni generazionali non bastano a spiegare il fatto di non ritrovarsi in un mondo strano come il nostro, che ha perso riferimenti e valori culturali identitari.

Ecco l’estrema paradossale coerenza logica del paradosso: nel suo modo di porsi da eterno diverso, da outsider della società e del conformismo imperanti, in realtà ha sempre portato avanti questa linea nelle sue canzoni.

Anche dal punto di vista musicale assistiamo a qualcosa di strano: prescindendo dai testi, il sottofondo sonoro si situa al tempo stesso in rottura e in continuità con i precedenti lavori (pensandoci bene, ognuno dei suoi album porta con sé questa stranezza e c’è quindi una coerenza anche in questo! Lo ha spiegato in una sua canzone: “Mi contraddico facilmente / ma lo faccio così spesso, che questo fa di me una persona coerente”).

Un altro paradosso in ciò è costituito dal fatto di fregarsene del giudizio altrui e del successo discografico, trovando però sempre un grande riscontro di pubblico e critica, di andare sempre più verso la sperimentazione ma al tempo stesso verso l’orecchiabilità e il pop.

In più, a livello di metriche e flow ha fatto suoi gli stili della trap e del rap più in voga al giorno d’oggi, senza cadere nel banale adeguamento ad essi, ma inglobandoli, rendendoli personali, facendo vedere come il suo stile ironico sia perfetto anche per servirsi di questi. 

Insomma, questo album pone tante domande e se ne possono dire tante cose. Caparezza non è più se stesso. Caparezza è cambiato. Caparezza è morto. Ma a un ascolto attento, quello che alla fine risulta è che Caparezza è vivo, più che mai. E va sempre al livello successivo.

E a proposito di ciò, è riuscito anche a dare vita a ciò che scrive, con un’ulteriore affermazione della propria originalità, qualcosa di unico nel mondo musicale, almeno italiano, un’esperienza da provare: EXUVIA EXPERIENCE. Riprendendo il termine hendrixiano, ha permesso a tutti di “vivere” l’album, entrandoci dentro per capirlo meglio, in una sorta di percorso guidato virtuale interattivo ricco di dettagli, tutto da esplorare, all’interno della foresta (clicca qui per entrare nella selva di Exuvia).

Concludendo, diciamo che intanto l’album ha già ottenuto la certificazione come “disco d’oro”, è stato per una settimana al primo posto della classifica Fimi e il brano La Scelta, tra i singoli più ascoltati in Italia, è stato passato molto in radio in vari paesi d’Europa.

Un successo largamente meritato per un disco dalla lunga gestazione, ben congeniato, che a un primo ascolto può sembrare troppo triste mentre è sempre più apprezzabile ad ogni ascolto perché contrariamente al resto del mercato discografico è concepito per durare; un album bellissimo, sorprendente e che, pur parlando di un mancato riconoscimento nel passato, paradossalmente, rappresenta il coronamento e la giusta celebrazione della splendida carriera di un artista unico.

(Ricordati che è una recensione allegra).