Gue Pequeño vs. Mr. Fini: nuovo album, stessa (vuota) retorica

GUE PEQUEÑO torna a far parlare di sé e mai quanto in questo caso vale l’adagio “purché se ne parli”.

Infatti, quasi come scelta di promozione o con un tempismo quantomeno sospetto, se ne è uscito con la presa in giro a Ghali sul suo abbigliamento “gender fluid”, affermando che non essendo gay è ridicolo a vestirsi da donna. Da che pulpito, verrebbe da dire…

Ma a parte i pettegolezzi, basati peraltro su osservazioni insulse come questa, giornalisti, critici e chiunque ne parla sembra non capirci molto e, a parte continuare a scrivere il suo nome sbagliato, sembrano che non sappiano dire niente di concreto su di lui e la sua evoluzione negli anni. 

Il nuovo album di Gue, accolto e acclamato dalla maggioranza degli addetti ai lavori come un nuovo capolavoro di uno dei competitori al titolo di “massimo esponente del rap italiano”, consta in realtà di tracce assolutamente confondibili con quelle di qualunque altro sbruffone di cui è piena la scena rap attuale, con quelle precedenti dei suoi ultimi album e purtroppo per niente assimilabili a quelle dei primi (vedi Sacre Scuole, Club Dogo). E qui non si tratta della classica critica da “nostalgico” per cui gli stessi hanno coniato il titolo “Non siete più quelli di Mi Fist”, ma si tratta proprio di riconoscere chi ha qualcosa da dire (e come lo dice).

Infatti un ascolto critico e imparziale, privo della sudditanza psicologica nei confronti di un “big”, rivela quanto, proprio tenendo presente il curriculum di un personaggio cardine della storia dell’hip hop noto come Il Guercio dei Club Dogo, quest’ultima opera sia di una pochezza sconcertante, che dimostra come anche uno che sa scrivere sia capace di farsi influenzare tanto dalle mode da non saper partorire niente di più elaborato di Quando entra quel tipo, tutti dicono: “È il tipo”, la gente qua si chiede dove abita il tipo (…) ma quanto spende il tipo? Un cifro”, ripetuto a sfinimento in una sorta di remake della filastrocca “La macchina del capo ha un buco nella gomma”, e steso su uno squallido campionamento/riciclaggio de L’ultimo bacio di Carmen Consoli.

E questo subito dopo un intro, L’amico degli amici, che purtroppo di simile al capolavoro hip hop di Turi del 2004 ha solo il titolo, e un’altra traccia il cui contenuto è una continua ripetizione del nomignolo Chico.

Per non parlare del singolo, acclamato da tutti come nuova poesia, Saigon. 

Questo pezzo potrebbe essere preso come esempio nei corsi di scrittura creativa per far vedere come sia difficile scrivere di ambientazioni e luoghi che non si conoscono: come qualcuno ha già notato, il video dall’iconografia giapponese è piuttosto anacronistico e il malinconico ritornello recita melodrammatico “Fioriranno ciliegi a Saigon”, come se si stesse parlando del Giappone mentre in Vietnam i ciliegi non crescono nemmeno, per via del clima, senza considerare poi che la città di Saigon non si chiama più così da 45 anni.

Per il resto, a parte qualche sprazzo di musicalità decente come nella collaborazione con Mahmood e Marracash (non a caso meno concentrati sull’apparenza e più sulle innegabili doti tecniche), l’album scorre tutto uguale e completamente assente di contenuti che non siano vacui riferimenti all’estetica criminale gangster / mafiosa.

Ma ovviamente il tutto è stato definito come una conferma della capacità del “ragazzo d’oro” e associato all’ennesimo episodio della saga dei rapper di successo che, come tutte le star, si trovano a dover affrontare l’aspetto “oscuro” della notorietà nello scontro dualistico e schizofrenico tra il personaggio che si sono creati e la persona fragile che c’è dietro.

Questa storia trita e ritrita, iniziata o almeno resa famosa nel rap da Eminem che si sdoppiava nel suo personaggio sboccacciato Slim Shady e la persona Marshall Mathers, dando questi diversi nomi ai suoi primi album, si è ripetuta tante volte finché alla fine dell’anno scorso fece scalpore la rivalutazione di Marracash come rapper impegnato e conscious, per via del suo disco Persona, di cui anche noi abbiamo tessuto le lodi, e nell’ambito del quale si parlava di “Fabio che ha ammazzato Marracash” come di una cosa nuova e stupefacente, apparentemente ignorando o dimenticando quanto fosse più ricco e complesso il lavoro di autoanalisi dualistica di Prisoner 709 che, appena un anno prima, un autore di ben altro spessore culturale come Caparezza stava portando in giro con il suo tour, riflettendo sul confronto con l’età, l’identità e il proprio ruolo.

In definitiva, il fatto di vedere in “Mr. Fini” un alter ego dell’ennesimo rapper e dell’ennesimo quarantenne in crisi in un mare di ragazzini,  descrivendo la sua vita e il suo successo e mostrando un animo sensibile e profondo a dispetto delle apparenze, è diventata ormai una retorica, che non ha senso se portata avanti con questa superficialità. Neanche se sei uno che ha fatto la storia del genere in Italia. E neanche se ti chiami Mr. Fini.