Calcutta @ Metarock Festival

Il festival musicale Metarock, che da anni ormai un appuntamento fisso del settembre pisano, per la sua trentunesima edizione ha deciso di proporre una line up di grande interesse, soprattutto per gli studenti della città toscana. Giovedì 8 settembre è stato lo scanzonato e tanto chiacchierato Calcutta a proporre ad un pubblico giovane, entusiasta ma ben poco attento e ancor meno esigente, una scaletta piuttosto varia, seppur forse troppo breve per il prezzo del biglietto.

Ad aprire il concerto ci hanno pensato i Mandrake, band livornese attiva dal 2010. I suoi cinque componenti hanno eseguito brani che gravitano tutti attorno all’universo indie-folk, impreziosito dalla viola e da arpeggi di chitarra ispirati a sonorità rigorosamente anglofile. Diciamo che non brillano per carattere, e, nonostante pezzi dal retrogusto più pop e orecchiabile, melodie morbide e avvolgenti, risultano alla lunga un po’ anonimi. La scaletta procede senza grosse sorprese e, dopo circa quaranta minuti, arriva finalmente il momento più desiderato dal devoto pubblico: Calcutta compare sul palco.

Attendevo con ansia di rivedere un suo concerto: l’ultima volta che le nostre strade si sono incrociate era all’Atlantico di Roma, in apertura al live dei Cani. Mainstream era ancora nelle orecchie di tutti, “Gaetano” era un inno buffo e nonsense di una gioventù sbilenca, Calcutta un idolo timido e goffo. Tuttavia, nonostante una prima impressione entusiasta per via dell’atmosfera euforica creatasi, ho pensato a lungo a quella performance e più ci riflettevo sopra più mi scoprivo delusa e amareggiata, del tutto insoddisfatta dello spettacolo in sé e per sé.

Questa volta devo dire che il live è nettamente migliorato, grazie anche ai nuovi arrangiamenti più complessi e strutturati dei pezzi pre-Mainstream, come “Amarena”. Dopo una prima strofa acustica, la canzone subisce una metamorfosi e si trasforma in una sinfonia di sonorità profonde, culminando in un’esplosione di emozioni. La formazione a cinque, che va a sostituire quella a tre, di gran lunga più scarna, che aveva calcato i palchi di mezza Italia nella prima parte del 2016, permette una maggior libertà di espressione e da una marcia in più alla scaletta. Il set si apre con una versione languida e intima, da ballare guancia a guancia, di “Limonata”, in cui la voce di Calcutta ci raggiunge e ci sfiora come una carezza. Non tardano poi ad arrivare i pezzi più noti: “Frosinone” e “Gaetano” li ascoltiamo quasi all’inizio della performance, alternati a brani come “Cane”, “Pomezia”, l’ultimo singolo “Albero”, la cui esecuzione spoglia e fin troppo minimalista non permette il godimento di una melodia non male. Il live si chiude con “Che Cosa mi Manchi a Fare” e “Oroscopo”, oltre a due bis di brani già eseguiti. Su “Oroscopo”, hit demenziale eppure maledettamente orecchiabile, mi sarei aspettata più cura nell’esecuzione e più energia, ma purtroppo le mie aspettative restano un po’ deluse.

Il concerto di Calcutta risulta in fin dei conti accettabile, di gran lunga migliore rispetto a quello che ci saremmo potuti aspettare mesi fa, tant’è che ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. Il margine di miglioramento è ancora molto alto per via del grande potenziale pop dei pezzi in scaletta, e potrebbe essere superato se soltanto il cantautore rinunciasse a questa aria annoiata e svogliata di cui si è fatto fregio fin ora, e trasmettesse un senso di maggior serietà al proprio pubblico. Una delle cose davvero snervanti è, a mio avviso, l’ostinazione a comportarsi come se quello che si fa sul palco non contasse nulla per gli altri e per sé stessi: mi dispiace Calcutta ma, purtroppo per te, ormai sei un musicista e ti tocca suonare, mi auguro ancora per un bel po’.

Chiara Cappelli