ELVIS PERKINS – I Aubade

ETICHETTA |Mir Records

GENERE | Folk

ANNO | 2015

Immaginate una spiaggia deserta, un gruppo di amici seduto sulla sabbia, l’alba che si avvicina, i sorrisi, gli sguardi, un falò spento da poco che fuma ancora, una coppia che si bacia, qualche birra sparsa qua e là. Fatto? (cit. Giovanni Muciaccia) Bene, allora avete in mente I Aubade, il nuovo disco di Elvis Perkins, in uscita il 6 luglio per MIR Records.

Elvis Perkins è uno tra i più interessanti cantautori folk contemporanei, figlio del noto Anthony Perkins (l’intramontabile Norman Bates di Psyco) e della fotografa Berry Berenson. La perdita precoce dei genitori (il padre stroncato da complicazioni legate all’Aids quando Elvis era appena sedicenne e la madre persa nell’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre) confluisce irrimediabilmente nella sua poetica. Grazie a questo disco possiamo assistere ad una sorta di rinascita, un risveglio rispetto al mood più cupo che aveva caratterizzato le tematiche dei suoi due precedenti lavori. Certo, ci sono anche passaggi duri e dissonanze strazianti come in “The Passage Of The Black Gene”, ma è altresì evidente una maggiore solarità di fondo che attraversa tutte e tredici le tracce dell’album.

Il nostro Perkins per lavorare a questo disco si è ritirato dalle scene per quasi sei anni (qualcuno ha detto Verdena?), nei quali ha composto, per lo più in solitaria, le tracce che sono andate a riversarsi in questo lavoro, per poi riemergere dall’oblio e dirci: “ok, questo è quanto”. L’ispirazione per il disco arriva dall’amico Arnaud, il quale ha subito un trapianto di cuore con una valvola bovina, fatto che ha portato Perkins a riflettere su cosa succederebbe se ad un uomo fosse trapiantato un cuore di suino. Questa tematica viene affrontata principalmente nel brano dal titolo “Hogus Pogus”, pezzo allietato da dei bellissimi scorci di flauto.

Le atmosfere sono quelle di altri tempi, echi e fruscii ci accompagnano per tutta la durata del nostro viaggio, come una piccola sicurezza che lentamente scivola via dalle nostre mani. Suoni sgranati, interferenze, il tutto garantito da un approccio lo-fi, diretta conseguenza della decisione di registrare l’intero lavoro con un registratore a quattro tracce invece di affidarsi ad uno studio di registrazione professionale. La voce, che in alcuni tratti ci ricorda quella di Devendra Banhart, la fa da padrone e ci guida attraverso lande desolate e paesaggi onirici, come nella splendida “& Eveline”. Va detto che non è tutto oro quel che luccica e se “I Aubade” risulta un bel disco, godibile e ben studiato, è anche vero che la mancanza di pezzi più movimentati come “Shampoo” o “May Day”, presenti nei due dischi precedenti, impedisce all’opera di compiere il salto di qualità per elevarsi a capolavoro.

Nel frattempo noi siamo ancora lì, seduti su quella spiaggia, con una birra semivuota in mano mentre guardiamo verso l’orizzonte. Il sole sta sorgendo, la luce ha sconfitto le tenebre anche oggi.

Francesco Canalicchio