Nello Spazio siderale con i Pond


All’inizio erano solo una costola dei Tame Impala, un side-project, ma ad oggi i Pond sono i migliori esponenti della fiorente scena psichedelica di Pert
h.

Prima di loro, però, tocca ai Baseball Gregg prendere le misure e questo trio di giovincelli dall’accento bolognese e dal sound molto brit ci riesce alla grande: orecchiabilissime chitarra e voce, goduriosi giri di basso e una batteria dal tiro invidiabile, riescono a catturare l’attenzione della sala in quella manciata di minuti concessagli. Nota di merito all’EP su musicassetta che fa venire gli occhi a cuore ad un’adolescente degli anni ’90 come me.
Puntualissimi, alle 23:00 salgono sul palco i Pond. Fin dalla nascita della band la formazione è sempre stata in perenne evoluzione e lo scorso 6 marzo al Covo Club di Bologna si esibiscono Nick Allbrook (chitarra e voce), Jay Watson (batteria), Joe Ryan (chitarra) e Jamie Terry (tastiere) per l’unica data italiana del tour di “Man, it feels like Space again”, il loro sesto album uscito a gennaio di quest’anno che in patria li ha portati fino alla posizione numero 15 nella chart dei singoli.
Il concerto dura poco più di un’ora, undici brani per l’esattezza, ma dalla prima all’ultima nota è come se il tempo si fermasse, come se tutto il locale diventasse una stazione orbitante intorno al pianeta al cui interno c’è un foltito gruppo di amici che fa festa, balla, ride, brinda e chiacchiera amabilmente (i commenti di Allbrook tra un brano e l’altro sono la perfetta miscela di intrattenimento e strafottenza che ci si attende, cito: “Come diavolo riuscite a mangiare pasta tutti i giorni?”); però, se ti affacci ad uno degli oblò, riesci a percepire la calma, l’immensità e la pace dell’Universo che ti circonda e “Waiting around for grace”, primo brano del set, ne è la colonna sonora perfetta.
Come da aspettative, il loro sound è una spirale mistica da acido, ammansito ed addomesticato con estrema maestria che sfiora la perfezione già solo al terzo brano, “You broke my cool”, durante il quale la mimica, la gestualità e la voce di Allbrook diventano il centro della scena. Proprio nel bel mezzo del live se ne escono con “Baby’s on fire” di Brian Eno: ormai sono persa nello spazio, in volo senza gravità quand’ecco che il riff di chitarra di “Giant Tortoise” mette i propulsori alla stazione orbitante Covo e ci trasporta a velocità warp verso un nuovo pianeta, l’ultimo paradiso al quale i piedi ci ancorano, “Man it fells like space again”, mentre lo sguardo è rivolto all’insù ad osservare la stazione migrante che torna alta nel cielo.
Un plauso particolare va fatto all’eccellente lavoro del fonico di sala che ci ha permesso di gustare un concerto di qualità rara senza lasciare timpani doloranti nelle ore successive.


Emanuela N. Porro

 

Photo by Stefano Brera