Per reagire al presente ci vuole un concerto dei FASK


È venerdì sera e dopo una settimana di lavoro-casa-lavoro, non vedo l’ora di arrivare al Circolone e assicurarmi l’ingresso, perché il concerto che hanno organizzato per stasera mi serve come l’ossigeno.


Sul palco ci saranno “i Fast Animals and Slow Kids da Perugia” che personalmente seguo con passione già da un po’ di anni e grazie ai quali ho riconquistato delle parti di me stessa che avevo lasciato indietro sulla strada. Prima di loro, però, si esibiscono i Revo Fever.

Formazione classica (due chitarre, basso, batteria), i Revo Fever suonano insieme dai tempi del liceo e hanno un sound tutto loro: questi quattro ragazzi di Milano, ai quali è affidato il compito di scaldare gli animi, propongono un rock completamente intriso di blues, con qualche venatura funky. Stasera affrontano l’ultima delle sessantadue date che hanno inanellato per promuovere il loro ultimo disco. Le prime file sono già gremite, il locale quasi pieno e i Revo Fever sembrano gasati dalla situazione. Con sei pezzi presi da “Più forte”, uscito un anno fa, riescono a coinvolgerci totalmente: il pubblico presente balla, tiene il tempo e canta incitato da Aligi, la voce del gruppo e così, con loro, inizio a respirare, a “ballare via” la monotonia.

Cambio di palco: tra poco inizierà una liturgia laica della quale Aimone sarà il ministro e con l’aiuto di Jacopo, Alessandro e Alessio ci ritroveremo in un’altra dimensione dove tutto sarà dipinto di nuovi colori che nascono solo nel momento in cui la distanza tra il palco ed il pubblico si annulla.

Partono le note di “Stephanie says” dei Velvet Underground ed io chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo: mi immagino l’Alaska, ci riesco talmente bene che mi viene un brivido di freddo… sarà l’ultimo fino all’uscita dal locale, perché stiamo per affrontare una danza ininterrotta, collettiva e catartica, due ore di pura apnea, al termine delle quali ci ritroveremo madidi di sudore e un po’ più leggeri nel corpo e nello spirito.
I FASK salgono sul palco e partono con “Ouverture” che ci introduce nel loro magico mondo con un mantra recitato dalla voce graffiante di Aimone, quasi a prepararci al delirio che sta per iniziare, quasi a chiederci scusa per le parole che sta per vomitarci addosso. Subito, come una bomba, arriva “Il mare davanti” e inizia così il pogo che coinvolgerà man mano sempre più persone, a tratti quasi tutta la sala. “Non c’è più speranza. C’è la notte e c’è il silenzio”: i versi di chiusura sono un urlo disperato e ti prendono a “Calci in faccia”, terzo brano del set, salvo poi infonderti fiducia con quel “Non avrò mai più paura”, come a dire “Sì, la vita può far schifo e noi la affrontiamo cinicamente, ma non smetteremo mai di provare a migliorare”.
Non c’è tempo per prendere fiato, i ragazzi sul palco non lo fanno, Aimone dà tutto se stesso, voce e corpo e così facendo, i FASK fanno cadere quel confine invisibile che si percepisce in quasi tutti i concerti: con loro non esiste un “sopra il palco”, quando suonano loro si diventa un’entità unica e ti senti come a quelle cene tra amici di vecchia data.
Il pezzo successivo è un’altra infusione di fiducia: “Combattere per l’incertezza” è la perfetta sintesi di quel sentimento pessimista, ma speranzoso che attraversa tutti i loro lavori e viene cantata da tutto il pubblico come un inno. Non è ancora arrivato il momento di riposarsi: “Coperta”, “Troia”, e “Odio suonare” ci travolgono come un treno in corsa.
I quattro perugini si fermano giusto il tempo di ricordarci che la prossima canzone fa parte del primo LP, “Cavalli”, dopodiché Aimone prende in mano le bacchette e inizia a picchiare come un fabbro sul tamburo che ha accanto (alla faccia della spalla “sfasciata” qualche mese fa) e così “Copernico” ci porta a “Maria Antonietta” (estratta da “Hybris”, il secondo album, quello della consacrazione di pubblico e critica) e ormai il pogo coinvolge tutta la sala.
“A cosa ci serve” è la domanda che ha in sé anche la risposta: percorrere la penisola in lungo e in largo, suonando su centinaia di palchi diversi, ha condotto i Fast Animals and Slow Kids ad essere oggi una delle migliori band che si possano ascoltare dal vivo e tutte le loro canzoni suonano meglio nella dimensione live; si sono fatti le ossa e sono cresciuti a livello tecnico ed in furbizia, sanno tenere il palco con maestria e anche un po’ di paraculaggine che non guasta mai. “Calce” è l’ultimo pezzo prima di quella che dovrebbe essere la pausa con discesa dal palco, ma al Circolone “dove cazzo andiamo?” dice Aimone sorridendo. È solo ora che il pubblico intona il riff di chitarra di “Lei”, tormentone a cassa dritta che ha accompagnato i FASK per tutti i precedenti tour e di nuovo Aimone esclama “Quella tamarrata non la facciamo!” e, proprio come se fossero con degli amici, si aprono una birra e brindano alla nostra.
Siamo pronti a tutto, tranne che ad andare a casa ed il rush finale è l’apocalisse in terra: ogni particella d’ossigeno che ancora resiste in sala, serve per urlare tutti insieme il ritornello di “Come reagire al presente” e gli ultimi versi di “Canzone per un abete – Parte II”. L’atto conclusivo è affidato a “Grand final” che chiude il cerchio non solo idealmente: “Una nuova alba, questa è la speranza”.

“Sarai uno di noi” è l’ultima frase che risuona tra le mura del Circolone, a ricordarci che la musica è anche questo: una band, il suo pubblico e tra di loro nessuna distanza, solo un’unica grande passione che li accomuna e li unisce.


Emanuela N. Porro