Le pagelle di Sanremo 2021: lo specchio di “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”

In un lungo ed estenuante Festival di Sanremo nato male e gestito peggio, in mezzo al piattume della formazione indie, svetta e trionfa il rock dei “Naziskin” contro la monotonia di “Ermal Metal” e l’autoritario strapotere mediatico Social-popolare dei Ferragnez. Premio della critica a Willie Peyote, con il brano migliore di tutti in quanto sembra descrivere perfettamente quello “che succede” (cit.).

La 71^ edizione del Festival di Sanremo passerà alla storia per il contesto particolare in cui si è svolta e per la mole di critiche e discussioni che ha suscitato soprattutto sui Social.

Infatti lo stesso direttore artistico Amadeus lo ha definito orgogliosamente “il Sanremo più commentato di sempre sui Social(E ci credo! Non c’era molto altro da fare in queste sere…).

In effetti ci sono molte cose rivedibili. Basterebbe dire che ci sono molte cose… troppe! Bisogna snellire! Perché prima di tutto quello che cerchiamo in Sanremo è la musica. Lo spettacolo e l’intrattenimento ben vengano (soprattutto se legati all’ambito musicale), ma tutti questi monologhi e divagazioni sullo sport e altri temi poco inerenti non erano necessarie, non c’era bisogno di riempire dei buchi (che non c’erano) in una gara già lunga.  

Anche noi diamo le nostre pagelle, facendo però una riflessione soprattutto sul fatto che molto di quello che non ha funzionato è collegabile alla presuntuosa illusione con la quale si è voluto fare a tutti i costi un Festival che esulasse dalla situazione, quasi ignorandola, andando incontro a un fiasco.

AMADEUS: 5

Se l’anno scorso la lunghezza delle serate era una cosa su cui scherzare, quest’anno non sono perdonabili le continue e inutili interruzioni della gara e l’accanimento nel far esibire alcuni artisti a notte fonda che risulta pesante. E in questo modo la pesantezza della situazione sociale fuori dall’Ariston non è stata in alcun modo mitigata.

Così come non è perdonabile la scelta di un co-conduttore quasi fisso come Ibrahimovic, personaggio che dopo l’episodio di razzismo messo vergognosamente a tacere con quasi totale mancanza di provvedimenti, viene pure premiato mentre non doveva proprio essere lì. E non è perdonabile un festival pieno di stonature, di errori tecnici, di malfunzionamenti dell’audio, come non è perdonabile la poca trasparenza e attendibilità del sistema di voto.

FIORELLO: 5

“Ciuri” riesce sempre a strappare un sorriso ma soprattutto improvvisando e facendo lo scemo, quindi risente molto della platea vuota, dove lui stesso più volte viene inquadrato seduto con la mascherina, dando un’immagine tristissima e indicativa di questa edizione di Sanremo. Il risultato è che non fa ridere e sembra che se ne renda conto, come uno che non sa più che inventarsi.

OSPITI:  6

Non ci addentriamo nella ormai classica diatriba su Achille Lauro, innalzato a trasgressivo artista performativo senza una valida motivazione. Tra gli altri ospiti, in particolare l’attrice Matilda De Angelis, Elodie e Loredana Berté hanno saputo dare importanti contributi allo spettacolo, seppure, ribadiamo, non ci fosse alcun bisogno di divagare tanto. Rimane dunque il sogno di un Festival di Sanremo più essenziale, in cui la musica rimanga centrale.

NUOVE PROPOSTE: 6

Tra i giovani sembra imperversare la nuova wave del blues e del neo soul: il bravissimo Davide Shorty è riuscito a farsi notare vincendo il riconoscimento della Sala Stampa Radio-Tv Lucio Dalla, nonostante la canzone non sia un granché rispetto a quello che l’artista è capace di fare; bene anche Wrongonyou (Premio della critica tra le Nuove proposte) e Folcast; per questo alla fine vince il poco convincente Gaudiano!

RANDOM: 2

Ha suscitato tenerezza e pena e sarebbe bene evitare a un giovane esperienze traumatiche come queste occasioni in cui mettersi in ridicolo.

AIELLO: 2

Seguendo lo spirito dei tempi (di pandemia) quest’anno i nomi dei medicinali vanno molto. In molti hanno ironizzato sul brano dal macchiettistico titolo di “Ibuprofene”, strillato senza criterio dal suo autore. Ottimo artista nel genere screamo.

FRANCESCO RENGA: 3

Un vero artista – soprattutto uno che Sanremo lo ha anche vinto con un pezzo rimasto famoso – dovrebbe capire quando ormai ha fatto il suo tempo. Non è il caso di Renga, veterano che fa la figura del dilettante allo sbaraglio. Come quando ottiene, in modo del tutto ingiusto, la possibilità di una seconda esibizione consecutiva per via di un malfunzionamento del microfono nella parte iniziale del brano. In realtà il resto si è sentito benissimo, anche troppo. In compenso, nella seconda esibizione riesce a cantare peggio di prima. O, per dirla con le raffinate parole del gentleman Willie Peyote, “ha cagato sul microfono”

F-ASMA: 3

Il momento in cui lo abbiamo apprezzato di più è quello in cui si è trovato ad affrontare l’incubo di un microfono che non funzionava, senza parole, senza autotune e senza ripetute sfiatate nel microfono degne delle televendite di Roberto Da Crema detto “Il Baffo”. Però ora potrebbe usare un nome d’arte più figo e con doppio senso come Fa(nt)-asma.

ARISA: 3    

All’inizio è sottotitolata alla pagina 777 del televideo, poi urla come una dannata: forse doveva regolarsi meglio con la tonalità. Il titolo del brano scritto da Gigi D’Alessio sembra azzeccatissimo come giudizio per l’interprete: “Potevi fare di più”.

GAIA: 4

La ragazza uscita da Amici porta a Sanremo un goffo tentativo di tormentone estivo, esotico e ballabile. Giustamente le viene fatto notare che non è proprio periodo. 

ERMAL META(L): 4

Il Premio Giancarlo Bigazzi per il miglior arrangiamento va al brano di cui non ricordiamo il titolo… Dovrebbe essere qualcosa tipo Serie 2-ModelloY653XT, il classico pezzo da Sanremo della macchina produttrice di hit radiofoniche Ermal Meta, che ha creato ormai un suo marchio di fabbrica, un tipo di testo e melodia perfetti per il bombardamento in radio. Ma dopo un po’ basta. In qualche modo è stato punito dal verdetto finale. Robot.

MALIKA AYANE: 5

Lei è sempre brava ma il pezzo, nonostante il testo importante, non è qualcosa che rimane in testa e non basta per attirare l’attenzione. Senza infamia né lode.

COLAPESCE-DIMARTINO: 5

Il duo è ormai rodato dopo un album cantautorale coi fiocchi; il brano vincitore del Premio Sala Stampa Radio-TV Lucio Dalla rimane in testa in modo impressionante, ci sta già martellando ma sembra l’autocertificazione da esibire per il loro spostamento: “Musica leggerissima”. Esattamente quello che hanno fatto. Eppure sembra essere piaciuta a tutti. Tutti tranne chi si accorge che è un copiaticcio di vecchie canzoni pop sentimentali. Furbi. Ipnotici. Manipolatori di menti.

FRANCESCA MICHIELIN E FEDEZ: 5

Non si capisce il perché di questa reiterata relazione extraconiugale vista la differenza abissale tra i due: la Michielin è una ragazza bravissima, talentuosa e ormai affermata nel pop, che non ha solo una bella voce ma anche una grande versatilità e creatività, senza bisogno di comprimari; Fedez è il fantasma piagnucolone di un rapper finto-sentimentale, non si sa più se tutto tatuato o tutto brandizzato, che sopraffatto dalla mentalità da Social Influencer, non sa più cosa sta facendo (da anni).

Infatti, dopo aver dichiarato che un artista va a Sanremo quando la sua carriera è al tracollo, Fedez conferma coerentemente questa sua teoria, si presenta come una star che però si porta dietro un carico gigante di ansie e tensioni, e riesce a stonare con l’autotune. Poi c’è la questione che ha scatenato la reazione del Codacons, quando la moglie del rapper, invita i suoi milioni di follower a televotare e così, strana coincidenza, il loro brano schizza dal fondo della classifica dritto sul podio, scavalcando tutti quelli che ci erano rimasti costantemente per quattro sere consecutive. 

BUGO: 5½

Il povero Bugo paga molto la pressione e lo strascico della vicenda dello scorso anno quando, dopo essere diventato un personaggio iconico dell’intero 2020 per le masse, non ha avuto modo di farsi conoscere per quello che è veramente: un grande cantautore con una lunga carriera alle spalle, molto apprezzata da chi si intende del settore. Purtroppo la gente non lo sa e nonostante il testo autobiografico molto emozionante (uno dei migliori), nota solo la voce debole, inadatta ad essere presa sul serio, il look da pugno in un occhio e così il ritorno del grande atteso è vanificato, la gente si chiede ancora “Dov’è Bugo?” e l’impresa, la seconda chance, sfuma. 

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA: 6

Il gruppo amatissimo nella scena underground non ha dato quello che poteva dare, il suo pezzo sembra un po’ sottotono, la cover pure. Niente di speciale ma conquista comunque il Premio Nilla Pizzi per la miglior interpretazione e canzone. Apprezzabile dopo più ascolti. Da risentire.

ANNALISA: 6

La sua voce è una garanzia, la presenza scenica migliora di serata in serata e nell’insieme il suo portamento convince il pubblico, tanto da piazzarsi sul podio fino alla fatidica serata finale. Il brano è adatto al contesto, ma niente che colpisce.

NOEMI: 6+

Il pubblico, in modo vergognoso, si concentra su quanto sia dimagrita e sul suo aspetto da Jessica Rabbit (ma con i capelli sempre più arancioni), più che sulle sue indubbie doti vocali. La canzone è la tipica canzone da Sanremo che la fa apparire scialba; sembra che la sua giustificazione sia stata: “è che mi disegnano così”… Un punto a suo favore è il momento delle cover in cui riesce a ovviare a un problema tecnico evidente, un ritardo che faceva sembrare Neffa un passeggero di un treno interregionale.

FULMINACCI: 6+

Sufficienza piena per l’orecchiabile brano di Fulminacci, giovane cantautore dalle riconosciute qualità, seppure non esattamente originale in quanto ripropone un mix di stili del cantautorato italiano. Il brano non ci dice niente. Nella serata delle cover però sbanca tutto con la sua energica e simpaticissima reinterpretazione di Penso Positivo di Jovanotti con un festante Roy Paci alla tromba e il devastante comico surreale Valerio Lundini.

IRAMA: 6+

Escluso dall’esibizione dal vivo, costretto dalla quarantena ad essere relegato a un video delle prove generali, raggiunge comunque una buona posizione in classifica, grazie anche a un ritornello con voce modificata che rievoca i Daft Punk freschi di scioglimento. Bravo anche nell’interpretare Cyrano di Guccini nella serata cover, un pezzo che raramente si sente in TV. 

GIO EVAN: 7

Nessuno lo ha capito. Eppure è in grado di comunicare sofferenza e consapevolezza in un brano che, pur rimanendo nel mondo delle arie sanremesi, rompe gli schemi canonici della metrica pop giocando con la sua stravaganza, di cui però sembra essere arrivato solo l’aspetto coloratissimo e folle. In un Festival in cui si sono alzati grandi polemiche su questioni irrisorie, nessuno lo ammette ma sembra che tutti abbiano dei pregiudizi nei confronti di questo poeta scanzonato, questo giullare triste, questo Pierrot variopinto in braghe corte e calzettoni colorati. 

MAX GAZZÈ: 7

È sempre se stesso anche su questa base particolare; al suo stile tipico (che però risulta anche ripetitivo) si aggiunge la trovata del travestimento e il bel duetto con il compagno di merende Daniele Silvestri; insomma si conferma per quello che è, ma non spicca. Il solito.

MADAME: 7

Conferma il suo talento l’autrice più credibile nell’ambito della scena giovanile. Vince il premio Sergio Bardotti per il miglior testo nonostante siano molto più forti l’interpretazione e la produzione, che porta l’evidente firma di Dardust

COMA_COSE: 7½

Fin dall’esordio abbiamo trovato un qualcosa nei Coma_Cose (vedi qui e qui), che col tempo hanno dimostrato di avere ben più di “qualcosa” da mostrare in termini di capacità. Anche se non riescono a brillare, la loro canzone libera la freschezza della musica urban e al tempo stesso la tenerezza del loro rapporto che mettono in scena sempre. Riascoltandoli senza i riflettori puntati vi accorgerete che Fiamme negli occhi era uno dei pezzi migliori, dolcemente romantico senza essere eccessivamente sdolcinato. Nella serata cover confermano il loro dichiarato amore per Battisti.

ORIETTA BERTI: 8 (un numero che comincia con la “O” per farla contenta)

Personaggio simbolo di questa edizione, l’inossidabile Orietta che non si è fatta sconfiggere neanche dal Covid, si fa subito notare: alla vigilia del Festival gira la notizia che sarebbe stata inseguita da tre volanti della polizia per aver violato il coprifuoco con la motivazione che doveva ritirare i vestiti per l’indomani; poi lascia attoniti proprio con l’oggetto del reato, un vestito blu luccicante con conchiglie a mo’ di sirenetta, accompagnato da un anello a forma di nome scritto per intero che ricorda i tirapugni di certi rapper gangsta; infine con le sue gaffe in cui rinomina alcuni colleghi come “Ermal Metal” e i “Naziskin”.

Nell’edizione più moderna di sempre spiccava come angolo del vintage ripescato, invece è stata un fondamentale pilastro dell’equilibrio di questo Festival perché la sua presenza non è solo il confortante ricordo di un passato che stiamo rimuovendo dal mondo della musica che conta; al contrario, come anche altri hanno rilevato, la “capinera dell’Emilia” è il simbolo di una bussola che stiamo perdendo.

E nelle interviste lo dice lei stessa, esplicitamente: “ho sentito tanti stonare, perché pensano che cantare sia facile”. Ecco, senza tanti giri di parole. Ineccepibile, ce ne siamo accorti tutti. Mentre lei, cantante di una volta, con un pezzo d’amore romantico che sa di vecchio, nonostante l’incredibile inserimento di elementi trap nella base (forse avremmo preferito sentirla in qualcosa di più allegro in stile Finché la barca va ma avrebbe fatto meno effetto), riesce a superare un’intera mandria di giovani promesse trap e indie alla moda e si piazza incredibilmente in Top Ten, dando a tutti una lezione: ci ricorda di che pasta è fatta e quanto la vera musica non c’entri niente con giovanilismo, mode, follower e streaming.

Perciò la comicità, il sapersi prendere poco sul serio, è in realtà l’altra faccia della medaglia dell’imponenza di una signora della musica, matrona granitica, monumentale, divina, che si erge a mostrarci quanto la musica sia degradata e che dovrebbe essere qualcosa di più “alto”, incutendo rispetto, come nello spettacolare e iconico video del brano di Sanremo. Icona.

EXTRALISCIO feat. DAVIDE TOFFOLO: 8+

Peccato che, partecipando nel ruolo ritagliato di outsider, di quota mattacchiona senza ambizioni, il gruppo non sia stato preso sul serio nella competizione e che dietro il circo messo su da Mirco Mariani & Co. la massa non possa vedere la ricerca musicale, l’uso di strumenti assurdi da veri feticisti di strumentazioni vintage rarissime, la tradizione del liscio romagnolo con spirito punk, qualcosa di spettacolare con quella chitarra che gira da sola che rimarrà una delle immagini migliori di questo Sanremo. Meritavano comunque di essere conosciuti anche così, come una truppa di personaggi bizzarri per il puro divertimento.

Dispiace però anche per Davide Toffolo (coinvolto nella frenesia da featuring celebri che ha caratterizzato ultimamente il gruppo), poco valorizzato, mentre sarebbe bene che il pubblico sapesse che quella maschera da teschio non è una trovata estetica ma rappresenta la lunga e gloriosa storia sua e dei Tre Allegri Ragazzi Morti. In ogni caso sono stati una boccata d’aria e di musica vera. Miti.

GHEMON: 8+

Un ritorno ad una matrice maggiormente rap e un ritornello soul dalla melodia distonica il cui saliscendi rimane impresso, Ghemon ha portato uno dei pezzi che meritava di più e invece non è stato il “Momento perfetto” per lui. Figliol prodigo.

MÅNESKIN: 9

Non si può dire che sia un pezzo chissà quanto originale quello della band uscita da un vecchio X Factor, anche perché ogni giorno spuntano presunti brani che sarebbero stati plagiati nella vincente “Zitti e buoni” (per chi non lo sapesse, uno dei principali nomi chiamati in causa dal totoplagio, Andrea Laszlo de Simone, ha empatizzato con la band prendendo le distanze dalla polemica). Certo è che, rispetto al noioso piattume generale, loro spiccano per la vivacità nel ritmo, insieme a Willie Peyote, Lo Stato Sociale ed Extraliscio, e così passano per rivoluzionari casinari maledetti del rock ribelle. E solo per questo si sono meritati la vittoria.

LO STATO SOCIALE: 10

In linea con la mossa dei 5 mini-album individuali (uno è trattato qui), nella prima serata il collettivo bolognese compare senza il frontman Lodo, chiuso in uno scatolone, (divertendo molto con la frase “Dov’è Lodo? Che succede?”) e manda avanti come cantante Albi con Combat Pop, brano che, rifacendosi al combat rock dei Clash e usando un ritornello fortemente pop per deridere proprio le caratteristiche del pop, mette in luce i paradossi della musica, della società, del mainstream, tutto alla loro maniera casinista, ironica, ammiccante al mondo indie.

Poi nella serata delle cover e dei duetti è opera loro il momento più alto in assoluto: il commovente spettacolo conclusione della rivisitazione di Non è per sempre degli Afterhours, con l’aiuto di grandi attori e voci dello spettacolo quali Francesco Pannofino ed Emanuela Fanelli, ricordando la situazione drammatica vissuta dai teatri e dai luoghi della cultura in genere. Finalmente qualcuno che accenni alla situazione del mondo della musica, finalmente qualcuno che parla della realtà. Leader politici.

WILLIE PEYOTE: 10 (e lode)

Ne abbiamo parlato più volte (vedi qui e qui). Confermando il classico schema per cui chi merita veramente è chi vince i premi della critica, il rapper che si aggiudica il Premio della critica Mia Martini è l’artista che prendiamo come chiave interpretativa dell’intero Sanremo 2021, anche per la sincerità con cui ha commentato i colleghi. Finalmente uno che dice le cose come stanno, e lo fa con stile.

Un ritmo trascinante e ballabile tra i pochissimi movimentati che riescono a smuovere dalla noia delle varie serate (grazie alla produzione del socio di lunga data Kavah, a Peppe Petrelli e Daniel Bestonzo) con un rap che ricorda a tutti cos’è il rap in una gara che sembra avere le idee confuse su questo, arriva come un fulmine a ciel sereno a ricordare il contesto in cui siamo: la situazione sociale e mediatica, la degenerazione politica e la crisi pandemica, la crisi musicale pre e post-pandemia.

Il brano non è al livello dei migliori scritti dal rapper torinese ma descrive esattamente quello che sta accadendo, la superficialità con cui ci approcciamo a tutto, anche alla musica, anche a Sanremo.

Infatti con la frase iniziale di Valerio Aprea dalla serie TV comica e metatelevisiva Boris, definisce lo stesso contesto di Sanremo 2021 con una definizione purtroppo valida sempre, in generale, per l’Italia: “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Lapidario. Nichilista. Vero. Per ricollegarci al Sanremo scorso, sincero.

Conclusione

Il problema principale sta nell’aver forzato tutto, a partire dalla scelta dei brani, dalla durata e dalla scansione delle serate, passando per ospiti, sketch ripetitivi e riempitivi vari. Ed è stata forzata soprattutto la mancanza di schiettezza, il tentativo di vivere Sanremo come se nulla fosse.

Salvo poi sottolineare l’importanza delle misure anti contagio, alternando momenti in cui ci si scherza sopra (tipo con Fiorello che ironizza mentre si mette i guanti per consegnare i fiori), e momenti in cui vengono completamente ignorate, contraddicendosi completamente.

Insomma, è evidente e comprensibile la voglia di evasione e di leggerezza nel dedicarsi alla musica e alla più grande tradizione nazionalpopolare italiana, che però così ha finito per rappresentare lo specchio di mille aspettative, delle modalità di gestione contrastanti, della negazione dei problemi e soprattutto del mondo alla deriva in cui stiamo vivendo, in cui si sprecano le polemiche e le visioni superficiali mentre fuori dallo spettacolo (e a influenzare lo stesso) c’è una situazione drammatica.

E proprio questa superficialità è strettamente connessa con quello che accade là fuori, che sta inghiottendo e condizionando sempre di più le nostre vite.

Tutto questo è ben sintetizzato nel brano di Willie Peyote. Lui e Lo Stato Sociale sono gli unici che – attraverso l’aggancio al contesto (per esempio citando il tormentone “Dov’è Bugo? Che succede?”) e alla realtà, non parlando d’amore ma di società e di musica – affrontano il problema che coinvolge loro stessi, senza fare comizi. Dicendo qualcosa di utile in un momento in cui c’è bisogno di prendere coscienza della realtà e non il contrario.