Intervista ad Alessio Lega

Per chi si fosse appena sintonizzato sulle nostre frequenze facciamo un breve riassunto delle puntate precedenti. Vinili: l’ascolto perduto è una rassegna in cinque appuntamenti in cui Alessio Lega e Guido Baldoni eseguono dal vivo e per intero dieci album pubblicati tra il 1970 e il 1980. Abbiamo fatto qualche domanda ad Alessio per approfondire l’idea del progetto e per scoprire qualcosa in più sui precedenti protagonisti.

Rappresentare un decennio di musica d’autore in soli dieci dischi. Con quanta sofferenza e difficoltà hai operato la selezione?
“Ogni antologia – per quanto larga – prevede delle esclusioni, in questo caso essendo molto lunghe le opere (interi dischi e non singole canzoni) la scelta cadeva su dieci soli artisti… davvero troppo pochi. Eppure nelle “regole” sta tutto il piacere del gioco. Davvero non c’è bisogno di un quadro con troppi particolari per illustrare un’epoca, un pensiero, una poetica… basta dipingere bene qualche particolare, e anche il resto in ombra risulterà vivo”.

Gli Anni Settanta hanno rappresentato il picco, la stagione più favorevole per la figura del cantautore. Al pari di una moda qualsiasi. Quanto contava l’autenticità dell’autore? Secondo te procedeva di pari passo con il successo di pubblico?
“Con questa iniziativa mia e di Guido Baldoni in realtà intendevamo dire che gli anni ’70 sono solo stati l’epoca di massima espansione commerciale del vinile, che era un mezzo che ha caratterizzato molto la modalità di ascolto della canzone d’autore. Un nostro precedente e fortunatissimo spettacolo, sempre articolato su più appuntamenti, allargava il campo a un secolo di canzoni (tutto il Novecento). Qui abbiamo voluto restringere il campo per dimostrare – con un bagno di ovvia umiltà – che il rapporto col mezzo “industriale” condiziona l’offerta culturale… ma che, se siamo fruitori attivi, dobbiamo saper andare oltre e ritrovare il piacere dell’ascolto perduto oltre le proposte del mercato. Nello specifico io penso che esistano altrettanto buone canzoni negli anni ‘20, ’50, ’80, ’00 e soprattutto oggi”.

Lo scorso appuntamento hai affrontato Sergio Endrigo e Enzo Jannacci, due autori che sembrano aver poco in comune. Invece tu hai portato alla luce degli aspetti che li rendono simili. Di Endrigo hai scelto le filastrocche per bambini, mentre di Jannacci hai proposto “Quelli che”. Entrambi dischi di rottura, sia formalmente sia con la figura del proprio autore. Una ribellione all’immagine che il pubblico si era creato di loro?
“Più che altro due eterni sperimentatori inquieti ed eclettici, che poco si conciliano con quella certa fissità del cantautore sempre uguale a se stesso, che con poche variazioni scrive “sempre la stessa canzone”. Jannacci in modo più schizofrenico ed espressivo, Endrigo da poeta raffinato qual era, sono stati due geni della canzone d’autore identificati con due o tre successi che non li rappresentano (“Vengo anch’io… non tu no”, “Io che amo solo te”), io ho voluto guardar oltre…”

Approfondiamo il lavoro di “Ci vuole un fiore”. Hai detto che il bambino fino agli anni ’60 è sempre stato visto come un giovane adulto e, a partire dagli anni ’80 con la nascita della tv commerciale, è diventato un giovane acquirente. C’è stato un decennio, gli anni ’70, in cui il bambino ha avuto il diritto e la possibilità di fare il bambino. Così poeti e cantautori scrivono per loro. L’aspetto educativo nella musica ci può essere ancora? Ha senso?
“Una delle attitudini sottovalutate dell’arte in genere e della canzone in particolare è quella didascalica – che per me ammiratore di Brecht non è affatto una parola sminuente – la canzone è un mezzo duttile per la sua semplicità, che può far cantare uno stadio, può essere sussurrata in una cella di tortura per farsi coraggio: è una cosa piccola ma grandiosa. Le canzoni per bambini – genere facile da far male e quasi impossibile da far bene – sono una delle più alte forme d’arte, nella musica popolare come in quella colta”.

Il cantautore è visto solitamente come uno con la chitarrina e un po’ stonato. Immaginario che torna in voga negli anni Duemila. Fare paragoni non è mai la soluzione del problema. In questo caso ti chiedo un elemento che rendeva unica la stagione degli anni Settanta e la caratteristica dei “nuovi” cantautori degli anni Zero.
“In realtà se io penso a uno “con la chitarrina e un po’ stonato” penso proprio al post-rock, a quell’idea indie della “canzone nuda” non per una scelta ma per povertà, alla grottesca deformazione attuale di qualcuno che vorrebbe fare del rock, ma non se lo può permettere perché ha solo i “Circolini” come palco… quindi a una cosa molto contemporanea. Negli anni ’70 semmai c‘erano le lussureggianti sperimentazioni di de André-PFM, di Dalla, di Branduardi, ecc. La soluzione sta nel fare della povertà un modo di aguzzare l’ingegno, come i bluesman del Delta che parlavano a tu per tu con Dio e con la morte, e non un’estetica della miseria di chi non crede in nulla e dialoga solo con se stesso”.

Passiamo al disco di Jannacci, lo definisci come “una sorta di crossover col cabaret”. Ci sono stati altri esempi in questo filone o Enzo è rimasto ineguagliato?
“Quando diciamo “cabaret” negli anni ’60 parliamo di qualcosa di molto più dirompente e complesso della miseria televisiva: diciamo qualcosa che ha a che fare coi poeti francesi, con i dadaisti, con la Germania di Weimar… a Milano al cabaret c’erano dei mostri di professionismo come i Gufi, un premio Nobel come Dario Fo, un jazzista come Intra, e dal Derby Club (il cabaret più famoso) passò anche il poeta-cantante Piero Ciampi. Di quel regno Enzo Jannacci fu il Re Lear, il diamante pazzo!”.

Se vi siete incuriositi non mancate al prossimo appuntamento a La Scighera il 1 giugno con De Gregori e Rino Gaetano. Ascoltare e comprendere il passato per approfondire e provare curiosità nel presente.

Amanda