Intervista ai Dans La Rue

Abbiamo avuto il piacere di fare una gradevolissima chiacchierata con Marco e Simone dei Dans La Rue, band di Livorno, novelli vincitori del Senza Filo Music Contest di Pisa, edizione 2016, che abbiamo con interesse seguito.

Innanzitutto facciamo il punto della situazione su di voi: come siete nati? Come vi siete evoluti? A che punto siete ora?
Avere un quadro della situazione non è così facile per noi ora: siamo arrivati sul palco del Senza Filo Music Contest con una situazione un po’ nebulosa all’interno del gruppo. Ci siamo formati nel 2011, io e Simone abbiamo iniziato come buskers a Roma, ed è stata una fase fondamentale della nostra storia. Poi abbiamo iniziato col primo disco un po’ più strutturato, cercando di mettere insieme e sistemare tutte le idee che avevamo accumulato in tanti anni di lavoro insieme. Abbiamo collaborato con tanti musicisti ma siamo rimasti sempre granitici come band. In questo periodo invece stiamo cominciando a capire l’importanza di trovare ciascuno la sua dimensione, esplorare nuove influenze e collaborazioni, così da poter dare un apporto ancora maggiore alla nostra musica.

Fare musica per strada ha cambiato il vostro modo di vivere la performance?
La nostra diversità dipende proprio da quello. Nei locali la gente non ti ascolta, va li a prescindere da te, mentre in strada sei te che hai bisogno di stimolare l’interesse ed hai la possibilità anzi il compito di sperimentare un atteggiamento diverso, più interattivo e costruttivo col pubblico. Chi ha suonato per strada fa la differenza sul palco perché ormai i musicisti hanno perso il contatto con le persone, hanno posto una distanza.

Senza dubbio il vostro sound è molto particolare, pressoché unico in Italia, che vi identifica ma in qualche modo vi isola. Come avete scelto di intraprendere un percorso così “estremo”?
La nostra bussola è sempre stata il ritmo. Io sono nato come chitarrista blues, quindi quella cadenza e ritmicità è il mio universo, insieme al funky, al reggae. Con Marco invece ho scoperto di poter fondere questo spirito con quello più africano delle percussioni. La vera svolta è stata forse aver incontrato Bob Brozman, un antropologo e musicologo, oltre che grande chitarrista, che ci ha aperto l’orizzonte su queste culture orientali ed esotiche musicalmente affascinanti. L’ho seguito per un periodo come fan, poi l’ho conosciuto personalmente a Sarzana, al Festival della Chitarra acustica, in occasione di un suo workshop. Da lì è partita una meravigliosa corrispondenza via mail; lui considerava le melodie tradizionali di questi luoghi ancora incontaminati come una sorta di trait d’union di tutte le culture non occidentali, e noi grazie a questa visione abbiamo imparato moltissimo.

Quando pensate sia presente la politica nella vostra musica?
Sinceramente è una domanda che ci fanno spesso. L’interpretazione politica di quello che facciamo è senza dubbio una lettura affascinante, ma direi che non è stata una scelta consapevole. Nelle nostre canzoni non vogliamo porre temi politici nel senso più stretto della parola. Forse potremmo dire che la nostra è stata una scelta politica alla radice: quella di andare a pescare al di là del bacino occidentale, dato che a nostro avviso la musica occidentale sta subendo periodo di stasi totale.

Cosa ne pensate, a questo proposito, della scena musicale italiana? Dove vi collochereste?
Non ci collochiamo, essenzialmente. E’ il principale motivo per cui fin ora ci siamo autoprodotti: non ci sentiamo inquadrabili in uno schema regolare e rassicurante come i gruppi che ora vanno per la maggiore. Quello che cerchiamo di fare è sorprendere sempre, mentre per ora vediamo intorno a noi solo motivetti edulcorati che funzionano e non introducono mai novità. C’è carenza di contenuti, mentre la cura cura dei dettagli e della produzione è diventata pura forma.

E non ci sono possibilità di creare dei circuiti paralleli, alternativi a questi standard secondo voi?
Certo, se ci sono situazioni come il Senza Filo è anche perché si sente la necessità di costruire dal basso, di cercare degli spunti che esulino da una manovra puramente commerciale. Tutto quello che abbiamo visto in queste serate non ha niente a che fare con il mercato e non lo alimenta, e questo su larga scala non può essere tollerato. Ad esempio noi usiamo sempre strumenti particolari, questo è sintomo di estrema libertà rispetto a quello cui siamo assuefatti. La cosa triste è che non c’è più neanche da parte del pubblico la capacità di essere reattivo e adattarsi a ciò che gli viene proposto, di andare incontro alla musica nella sua nudità.

Tra tutti i concorrenti del Senza Filo eravate quelli più a proprio agio in una dimensione così acustica e intima, è davvero quella che sentite più vostra? Come è possibile adattarsi come hanno fatto altri concorrenti a situazioni così distanti da quella di partenza?
Anche noi abbiamo sempre suonato in tutte le situazioni: house concerts, ville, centri sociali, ed è possibile farlo, il segreto è mettere la musica al centro.

Potrebbe essere questo il motivo per cui il pubblico ha difficoltà ad adattarsi ad un’attitudine così radicalmente differente?
Senza dubbio sì perché non è più abituata alla diversità. Quando ti vengono proposti sempre gli stessi schemi identici il tuo cervello fa fatica a modificare i parametri ed abbandonarsi a qualsiasi tipo di novità. E’ proprio il dramma di aver messo il focus sull’immagine piuttosto che sulla musica in sé.

Alcuni brani sono in creolo-francese, o comunque in lingue indigene del luoghi a cui vi ispirate. Credete questo sia un limite per la comprensione e la fruibilità dei brani?
La musica è un linguaggio universale che non ha bisogno che tu comprenda la sua grammatica e la padroneggi per farti sentire qualcosa. Noi ci siamo innamorati di musiche così diverse dagli standard occidentali senza conoscere le lingue che sentivamo, semplicemente abbandonandoci alla sensazione. Senz’altro è utile per le canzoni con testi in altre lingue dare un aiuto spiegando a grandi linee il testo in maniera da far capire da quale punto di vista è stata composta la canzone. Il messaggio è contenuto nella musica stessa, nel suo ritmo, negli accordi, nelle sensazioni che genera nell’animo di ciascuno. Questo tipo di meccanismi sono come un’arma a doppio taglio, possono servire sia a farti piacere per forza un certo brano, costruendolo in maniera tale da suscitare in te un sentimento. Possono essere invece usati come strumento per diffondere una ventata di novità, per veicolare messaggi, melodie, emozioni differenti da quelli impacchettati e standardizzati, accade quando sono radicati nella tradizione e assumono un significato vero.

Queste culture le avete sperimentate con le vostre mani, attraverso il contatto con questi luoghi?
Alcuni posti li abbiamo visitati, come l’India, dove siamo stati insieme due anni fa e siamo riusciti ad entrare in contatto con le persone del luogo, poi Indonesia, Africa. L’apporto di esperienze è fondamentale per dare un contenuto a quello che fai, un ritmo che non hai vissuto sulla pelle non puoi assorbirlo e restituirlo. In alcuni posti non siamo stati ma siamo in contatto tramite una etichetta discografica dell’Isola della Reunion che ci ha mandato tantissimo materiale per approfondire la cultura e la storia di quei posti. Per questo internet è un mezzo fondamentale per conoscere ed affacciarsi a cose così diverse, visto che in Italia non c’è nessuno che fa cose simili quindi da questo punto di vista la tecnologia del terzo millennio è utile: ti da talmente tante possibilità e hai l’occasione di arrivare direttamente alla fonte.

Chiara Cappelli