Dentro la gabbia di luce: il cerchio perfetto dei Radiohead

L’ultimo ricordo che avevo di un concerto dei Radiohead era quello legato al live del 2017 per il tour di Burn The Witch, nel catino della Visarno Arena di Firenze, un girone infernale fatto di lunghe file per i bagni, per i maledetti tokens, ma soprattutto uno show visto da distanza siderale e con un’acustica pessima.

Anche questa serie di live, oltre alla spasmodica attesa, era stata preceduta da una serie di eventi non proprio positivi: le polemiche per le modalità di vendita dei biglietti, le accuse rivolte alla band riguardo alla posizione sul genocidio in corso a Gaza, sul quale solo Ed O’Brien aveva preso una posizione netta di condanna, le indiscrezioni sulla notizia che i membri della band avrebbero avuto per la prima volta camerini separati e poi quel palco visto nelle date di Madrid.

Tutte cose che trasmettevano un senso di preoccupazione mista ad ansia da partecipazione.

Tutti questi elementi si dissolvono, però, nel momento in cui la band fa il suo ingresso sul palco della Unipol Arena.

 

Nonostante alcune imperfezioni tecniche, lo spettacolo si rivela immediatamente solido e coinvolgente.

Thom Yorke, 57 anni, ma un’energia che smentisce l’anagrafe, percorre instancabile il perimetro del palco, mentre il resto del gruppo appare affiatato, in buona forma e, dettaglio non trascurabile, sinceramente partecipe.
Una condizione che, alla vigilia, non era affatto scontata.

Alle 20.30 i Radiohead fanno il loro ingresso all’interno del palco formato da dodici pannelli verticali che si sollevano e si richiudono come una macchina scenica vivente, lasciando intravedere solo sagome filtrate, quasi extraterrestri, attaccando con Planet Telex.
L’inizio è freddo: il suono rimbalza male nel palazzetto, la resa è distorta, l’ambiente gelido, ma già con 2+2=5 i pannelli si aprono, le proiezioni diventano nitide e la band si mostra intera: Yorke, i fratelli Greenwood, O’Brien, Selway e il secondo batterista Chris Vatalaro.

Segue Sit Down Stand Up e l’arena si accende di rosso, Yorke danza nervoso lungo il bordo del palco circolare, mentre Jonny alterna xilofono e synth con la sua consueta precisione millimetrica. In Bloom, le tre linee di percussioni si intrecciano e salgono progressivamente di livello, il suono, inizialmente imperfetto, si apre e quando trova la sua direzione, l’effetto è quello di un’immersione totale: l’Arena entra nel linguaggio dei Radiohead, fatto di strati, contrazioni, respiri elettronici.

Da qui in poi è un flusso unico, scandito da una scaletta identica a quella della terza serata di Madrid: venticinque brani che attraversano quasi tre decenni di carriera.

Il primo punto di svolta emotivo è Lucky: la sala esplode, Yorke saluta in italiano (“Ciao a tutti, come va?”) e il concerto prende definitivamente quota.

Ful Stop trasforma il palco circolare in una centrifuga; The Gloaming diventa una danza di loop; There There, con la doppia batteria, è un trionfo annunciato; No Surprises segna il primo grande momento collettivo della serata.

La parte centrale del live alterna sospensione e impatto: Videotape congela il tempo, Weird Fishes/Arpeggi porta luce e dolcezza in un crescendo che abbraccia tutto il parterre.

Everything in Its Right Place si apre come un manga luminoso, 15 Step è la parentesi più danzereccia, The National Anthem fa tremare il pavimento.

Prima di Subterranean Homesick Alien, Yorke chiede: “Si sente bene?”. Sì, finalmente sì.

L’accoppiata BodysnatchersIdioteque chiude la prima parte con un vortice di energia che ribadisce perché i Radiohead restano una delle pochissime band capaci di spostare il baricentro del rock contemporaneo verso territori realmente altri.

Il bis si apre con una versione acustica di Fake Plastic Trees: i pannelli si richiudono, la band si compatta e poi si riapre su un mare di torce bianche. L’apoteosi emotiva arriva con Let Down, seguita dalla consueta catarsi di Paranoid Android. C’è spazio anche per la provocazione quieta di You and Whose Army? e per la rarissima A Wolf at the Door, eseguita con un’intensità feroce.

Just riporta il pubblico al passato più rock, prima che Karma Police chiuda tutto nel modo più naturale: Yorke che ripete “For a minute there, I lost myself” insieme all’intera arena.

A fine spettacolo, sugli schermi scorrono gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani, un’ultima cornice politica e umana che ricorda come i Radiohead non siano mai stati soltanto una band, ma un dispositivo di visioni, mondi, appartenenze.
Quello di Bologna, più che un semplice concerto, è stato un piccolo rito di trasformazione: si è entrati interi, ci si è persi, ci si è ritrovati diversi.

Le canzoni dei Radiohead, che un tempo suonavano come profezie disturbanti di un futuro che nessuno voleva immaginare, oggi somigliano a descrizioni familiari del nostro presente.

E quando le riportano sul palco, come ieri sera, ne alleggeriscono l’oscurità, le restituiscono alla dimensione umana, quasi consolatoria.

Sentirle, e quando possibile cantarle, fa bene: l’angoscia diventa bellezza, la dissonanza una forma di cura.

Ed è qui, forse, che si afferra davvero il senso della presenza dei Radiohead nel 2025: continuano a mostrarci chi siamo, e a farlo con una grazia che ancora sorprende.

Setlist:

  • Planet Telex
  • 2 + 2 = 5
  • Sit Down. Stand Up.
  • Bloom
  • Lucky
  • Ful Stop
  • The Gloaming
  • There There
  • No Surprises
  • Videotape
  • Weird Fishes/Arpeggi
  • Everything in Its Right Place
  • 15 Step
  • The National Anthem
  • Daydreaming
  • Subterranean Homesick Alien
  • Bodysnatchers
  • Idioteque
  • Fake Plastic Trees
  • Let Down
  • Paranoid Android
  • You and Whose Army?
  • A Wolf at the Door
  • Just
  • Karma Police