Radiohead @ Ippodromo del Visarno

Un concerto dei Radiohead è un’esperienza impossibile da raccontare per la sottigliezza dei sentimenti, la sublimità dell’atmosfera, l’incanto dei respiri trattenuti di tutti gli spettatori, incantati da quei suoni e da quelle luci. Solo trovandomi di fronte alla pagina bianca mi accorgo di quanto sia difficile esprimere con parole umane quel che i quasi 50 000 che hanno gremito l’Ippodromo del Visarno di Firenze hanno provato di fronte alla monumentale performance dei Radiohead. Consapevole della finitezza del linguaggio, cercherò di fare un punto della situazione sul concerto tenutosi il 14 giugno 2017, prima delle due date italiane della band.

L’evento in generale, nonostante le sue imponenti dimensioni e la folla accorsa ad assistervi, si rivela abbastanza funzionale, almeno da un punto di vista di scorrimento per gli ingressi che, nonostante accuratissimi – forse anche fin troppo puntigliosi – controlli di sicurezza, non hanno presentato alcun intoppo. Una volta entrati ci posizioniamo all’interno dell’area delimitata più vicina al palco e attendiamo con pazienza di dare inizio alle danze.

Il primo gruppo a suonare sono i Junun, un progetto che vede coivolti il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood, il compositore israelo-indiano Shy Ben Tzur ed il collettivo The Rajasthan Express. Percussioni incalzanti rincorse da languide ma potenti melodie di fiati e un cantato intenso e dal sapore antico: con i loro ritmi scatenati i Junun ci fanno passare una piacevolissima mezz’ora. Lo stesso non posso dire della seconda apertura, James Blake. Non che manchi la qualità, anzi, il batterista stupisce per la sua performance, ma l’impressione è quella di una scaletta troppo rallentata sull’avvio, con quattro pezzi – tra cui l’immancabile ‘Limit To Your Love’ senz’altro struggenti, ma molto lenti: una volta che la situazione si rianima, è troppo tardi, il pubblico è già scocciato e scalpita nell’attesa dei Radiohead che di lì a poco saliranno sul palco.

Finalmente alle 21.30 in punto Tom Yorke e compagnia bella salgono sul palco e danno inizio ad un incanto senza limiti. Un concerto lungo, lunghissimo per la sua intensità: una scaletta quasi perfetta, composta da ben 25 pezzi, attinti in maniera piuttosto uniforme dalla discografia della band. Oltre a molti brani estratti da “A Moon Shaped Pool” (2017), come ‘Daydreaming’, ‘Desert Island Desk’ e ‘Full Stop’, che aprono la tracklist con una nota malinconica, forte è anche la presenza di canzoni tratte dal loro capolavoro “OK Computer” (1997), di cui ricorre il ventennale. ‘Lucky’ e ‘Let Down’, inframezzate da ‘Pyramid Song’ e ‘Everything in its right place’, rappresentano uno dei momenti più suggestivi del concerto. Un altro istante che non scorderemo facilmente è senza dubbio il religioso silenzio durante l’esecuzione di ‘Exit Music (for a film)’. Nonostante questi frequenti ed alti momenti di poesia a cui i Radiohead ci hanno abituato, la scaletta è tutt’altro che statica e passa agilmente a ritmi più serrati, come nel caso di ‘Airbag’ e ‘Paranoid Android’.

I suoni sono perfetti, ovattati o affilati a seconda delle esigenze, calibrati al millimetro per delle esecuzioni con scarsissimo margine di miglioramento. I visuals psichedelici e curatissimi, che ritraggono la band durante la performance grazie a delle camere appositamente posizionate, e le luci di grande effetto completano l’atmosfeta regalandoci una serata magica, che trova la sua degna conclusione con l’ultimo bis da favola: ‘Lotus Flower’, ‘Fake Plastic Trees‘, ‘Karma Police’. Un’emozione, un pathos, un’intensità che restano impressi nella mente in maniera indelebile: ancora stordita da tanta bellezza mi chiedo quando vedrò di nuovo qualcosa di simile accadere sotto i miei occhi.

Chiara